di Claudio Vellutini
Titolo ancora raro negli States, Anna Bolena torna sulle scene della Chicago Lyric Opera a trent'anni dal debutto locale protagonista Joan Sutherland. Oggi la sventurata regina inglese è Sondra Rodvanovsky, che guida una locandina dagli esiti alterni.
CHICAGO, 7 gennaio 2015 - Quando il Metropolitan di New York decise di aprire la stagione 2011-12 con la donizettiana Anna Bolena, la risonanza mediatica dell’evento fu tanto prorompente quanto profonda era stata l’oscurità che fino ad allora aveva avvolto la partitura negli Stati Uniti. La presenza di Anna Netrebko nel ruolo del titolo gettò ulteriore benzina sul fuoco pubblicitario del teatro. La sua interpretazione scatenò non poche discussioni sulla congenialità della parte alle caratteristiche vocali del soprano russo. Tuttavia, proprio perché ampiamente dibattuta, l’esecuzione finì per amplificare l’eco della produzione e, di conseguenza, risvegliò la curiosità per questo lavoro donizettiano. Sull’onda di tale interesse, altre istituzioni americane hanno aperto le porte all’ambiziosa opera. Le recite ospitate alla Lyric Opera di Chicago tra dicembre e gennaio fanno parte di questo trend. A differenza del MET, per la verità, non era questa la prima volta che il titolo compariva nel cartellone del teatro. Nel 1985, infatti, Joan Sutherland e Richard Bonynge avevano già provveduto esporre il pubblico locale all’opera. Ma se allora la primadonna australiana spendeva le ultime risorse di una carriera in gran parte dedicata al belcanto ottocentesco, oggi la Lyric preferisce affidarsi ad un’eccellente cantante per la quale però questo repertorio è un terreno ai confini delle sue possibilità vocali. È questo un tratto che accomuna la Netrebko con la protagonista della produzione di Chicago, Sondra Radvanonsky.
Intensa interprete dei più impegnativi ruoli del repertorio lirico-spinto (tardo Verdi in testa), il soprano americano ha progressivamente aggiunto alcune delle eroine del belcanto romantico alla propria galleria di personaggi tra cui Norma, Maria Stuarda, Elisabetta I in Roberto Devereux, Lucrezia Borgia e, per l’appunto, Anna Bolena. Ad essi, la Radvanovsky porta in dote molti pregi e qualche limite. Ampia e risonante la voce, di colore intenso e particolarmente caratterisco, lunghi e ben gestiti i fiati. Qualità, queste, che costituiscono una promettente base per affrontare un personaggio complesso e oneroso come Anna, cui però fanno difetto una maggiore propensione al canto di agilità (imprescindibile nelle cabalette, anche laddove esse vengano eseguite una volta sola, come è avvenuto nella maggior parte dei casi in questa produzione) e una più accurata valorizzazione del testo cantato, talora inficiata da un’eccessiva approssimazione nell’uso delle consonanti. Nel complesso, della seconda moglie di Enrico VIII la Radvanonsky ha offerto un ritratto di grande interesse, ma incompleto: la notevole efficacia espressiva dei momenti di più struggente abbandono—resi con un lirismo dolente puntellato di estatiche mezzevoci—e trascinanti impennate si alternavano infatti ad altri in cui la vocalista giocava in difesa.
Accanto a lei, si faceva valere l’autorevole e timbrato Enrico di John Relyea, uno dei più completi bassi-baritoni americani, nonché unico interprete del cast a sfruttare in modo convincente le potenzialità espressive delle parole di Felice Romani. Un paio di acuti sfocati facevano intuire uno stato di salute non del tutto ottimale. Mali di stagione che hanno costretto il mezzosoprano Jamie Barton (Giovanna Seymour) a fare pubblicamente ammenda a inizio recita per una performance in sordina, sulla quale, pertanto, preferiamo sospendere il giudizio. Note meno felici sul fronte tenorile, dove Bryan Hymel, nel ruolo acutissimo di Percy (scritto per Rubini), faceva valere sì acuti gagliardi, ma ad essi sembrava limitarsi, per il resto risolvendo la parte con una voce di scarsa attrattiva timbrica e disarmante inerzia interpretativa. Completavano il cast lo Smeton fresco ma esile di Kelley O’Connor, l’incisivo Rochford di Richard Ollarsaba e il buon Hervey di John Irivin.
Il direttore Patrick Summers si limitava ad accompagnare anonimamente i cantanti. Invano attendevamo un volo di fantasia che illuminasse la monumentale partitura e traesse profitto dai molti momenti in cui Donizetti crea con poche ma incisive pennellate un ricco ventaglio di atmosfere e situazioni. Un esempio tra i tanti, valga la tumultuosa introduzione del duetto che segna l’incontro segreto tra Anna e Percy, tirato via con distrazione.
Analogamente, rimpiangiamo il fatto che la Lyric abbia deciso di presentare il brutto allestimento di Kevin Newbury, originariamente proposto a Minneapolis due anni fa—un’accozzaglia di riferimenti iconografici stilisticamente eterogenei che non sembrano confluire in nessuna idea né aiutano dar conto delle complesse vicende storiche e biografiche (peraltro confusamente alluse) che permeano la trama dell’opera. Qualche licenza (tra cui i pertichini di Percy, Rochefort e Smeton trasformati in fantasmi che un’Anna allucinata immagina di vedere durante la sua scena di pazzia) non contribuiscono a sollevare le sorti di uno spettacolo di scarso interesse. Ci auguriamo che Chicago non debba attendere altri trent’anni per una produzione che faccia piena giustizia a Donizetti e alla sua Anna Bolena.