di Andrea R. G. Pedrotti
Alla Fenice è in scena I Capuleti e i Montecchi di Bellini nell'allestimento, in coproduzione con il Filarmonico di Verona e l'Opera Nazionale Ellenica, di Arnaud Bernard. Dirige un travolgente Omer Meir Wellber, mentre nel cast ascoltato sabato 17 gennaio si segnala soprattutto la bella prova del soprano Mihaela Marcu.
Leggi la recensione del cast alternativo (Pratt, Ganassi, Mukeria)
VENEZIA, 17 gennaio 2015 - Come fu l'11 marzo 1830 alla Fenice di Venezia, sabato 17 gennaio 2015 sono di scena I Capuleti e i Montecchi Vincenzo Bellini. Nel nostro pomeriggio trascorso nella Serenissima abbiamo avuto modo di ascoltare la seconda compagnia della produzione.
La regia di Arnaud Bernard ha debuttato più di un anno fa e non cessa di offrire interessanti spunti: ci si accinge ad allestire una mostra e l'intera sinfonia è teatro della disposizione dei dipinti, fra i quali uno, il più grande e il più importante, partorirà, con il lacerarsi della sua tela, tutti i personaggi della tragedia, ambientata nella Verona che fu.
Tutti i Capuleti, a eccezione di Giulietta, indossano un abito di velluto rosso, indistinto ma efficace. Il solo Tebaldo veste una differente tonalità purpurea, con piccoli ricami dorati; variazione, questa, utile a individuare il personaggio nel corso delle scene d'assieme. Romeo, unico Montecchi nell'opera di Bellini, indossa un costume del tutto simile a quello degli antagonisti nella confezione, ma d'una bella tinta pervinca, tendente all'azzurro. Contrasto cromatico fra colori freddi e caldi utile a rendere ancor più marcata la rivalità, oltretutto attraverso un espediente che sarebbe naturale in pittura. Per tutto il primo atto i movimenti scenici non denotano particolari degni di una qualsivoglia nota; i gesti non sono affatto manierati, ma tradizionalmente appropriati.
Secondo atto ancor più interessante, specialmente nell'aria di Giulietta - quando la giovane decide di porre fine ai propri giorni, piuttosto che rinunciare all'amato - e nel grande finale. Al termine dell'opera, infatti, il corpo inerte dell'innamorata infelice viene portato al centro della scena, poggiato su quello che appare come il tavolo da lavoro di uno studio pittorico. Il coro si discosta dalla staticità e lascia i due amanti al loro dramma. Grande chiusa finale e tutti i protagonisti tornano nel dipinto, circondati da un'immensa cornice, nell'immobilismo più totale. Quest'immagine non può che evocare quella della conclusione di molti testi teatrali, che, sull'ultimo drammatico sospiro, riportano la didascalia “quadro”. Quel quadro che rappresenta l'epilogo dell'opera, ma anche l'eternità dell'amore di Romeo e Giulietta, scritta in versi, in musica e in tratti di pennello. Alla Fenice le tre forme d'arte sono diventate un'unica espressione passionale degli innamorati per eccellenza.
La compagnia di canto a messo in luce promesse che si stanno sempre più dimostrando conferme di assoluta qualità e interpreti che, pur non demeritando, non ci paiono ancora pronti per il salto nell'Olimpo del melodramma.
Non demerita il Tebaldo di Francesco Marsiglia: il timbro è chiaro, ma gradevole. Lo squillo non appare mai troppo perentorio; tuttavia il tenore risolve bene la splendida aria “E' serbata a questo acciaro”, impreziosita da belle variazioni nella cabaletta. Ben figura anche nel duetto con Romeo “Olà! Chi sei, che ardisci”, che rappresenta uno dei migliori momenti della serata anche per Paola Gradina. Il mezzosoprano veneto entra in scena con poco impeto giovanile e la dirompente vivacità emozionale dell'adolescente veronese fatica a venire a galla: frasi come “la tremenda ultrice spada” appaiono non abbastanza vibranti. La voce si perde troppo spesso nell'agilità e nel registro acuto, vanificando la passionalità scenica della cantante. Prova, comunque, in crescita quella della Gardina, fino al meraviglioso finale, suggello tragico dell'amore tormentato e impossibile per antonomasia.
Fino a questo punto, comunque, s'è parlato di interpreti (specialmente la Gardina), di ottimo livello per un secondo cast, mentre lieta notizia è stata la continua crescita del giovane soprano rumeno Mihaela Marcu. Oltre alle indiscutibili doti nella recitazione, ella, con grande eleganza e carisma scenici, accentra su di sé l'attenzione, anche grazie a un fraseggio e un accento estremamente curati. La voce è calda e rotonda, l'emissione morbida e proiettata senza sforzo. La crescita tecnica degli ultimi mesi le consente una gestione dei fiati sempre migliore. Il suono è ampio quanto sempre centrato negli acuti, i quali, se proseguirà nell'evoluzione di cui si sta facendo protagonista, potranno guadagnare ulteriore squillo, consentendole di diventare una delle migliori interpreti di Bellini e Donizetti, fino a giungere al grande repertorio francese. Per certi versi può sembrar strano ascoltare la Marcu in un secondo cast, ma la produzione è di alto livello e proprio grazie a una continua gavetta e allo studio ora possiamo ascoltarla a determinati livelli di continuo progresso qualitativo.
Seconda compagnia diretta, come il primo cast, dall'ottima bacchetta di Omer Meir Wellber: il maestro israeliano non rinuncia mai alla tipica melodia belliniana e ne rispetta in pieno le dinamiche, rendendole, tuttavia, più cupe e drammatiche. Un pathos stringente affiora dalla prima all'ultima nota, sfociando in un finale II memorabile per intensità. I cantanti sono sempre accompagnati e seguiti al meglio: mai coperti, ma aiutati con la giusta dose dei volumi orchestrali.
Meno entusiasmante il coro, diretto da Claudio Marino Moretti, che evidenzia un colore troppo chiaro e un amalgama del suono talora perfettibile.
Alessandro Camera ha curato le scene, assieme allo stesso Bernard, i costumi erano di Carla Ricotti, il disegno luci di Fabio Berettin.
L'allestimento è in coproduzione con la Fondazione Arena di Verona (dove andò in scena nel 2013) e con l'Opera Nazionale Ellenica. Questa stessa regia, con il ruolo di Romeo interpretato dal tenore Anicio Zorzi Giustiniani, è stata rappresentata anche a Muscat.