di Andrea R. G. Pedrotti
Non convince la replica della Traviata al Filarmonico di Verona con la coppia alternativa di amanti: Jessica Nuccio non si mostra all'altezza del ruolo e il tenore Hoyoon Chung evidenzia troppi limiti tecnici e stilistici. Così, ad eccezione del sempre notevole Germont di Simone Piazzola, tutta la produzione perde molto smalto rispetto al debutto.
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VERONA, 27 gennaio 2015 - Dopo la bella prima di domenica scorsa, purtroppo, dobbiamo render conto una recita di bassissimo livello musicale questo martedì. Teatro gremito grazie alla bella iniziativa di offrire sconti speciali ai giovani: al Filarmonico, infatti, si è registrata una numerosa e festante presenza di ragazzi, molti dei quali assistevano a un'opera per la prima volta. La traviata è un capolavoro e uno spettatore novello non può che restarne folgorato, nonostante le pecche esecutive.
Le note maggiormente dolenti sono giunte dalla voce di Jessica Nuccio, attrice per di più costantemente monocorde e insipida. L'intonazione è una chimera, il suono è piccolo e mal proiettato. Il soprano tende costantemente a rendere le vocali estremamente nasali, il che porta a un'emissione stridula, accentuando l'analgesia del timbro. Veramente brutto da ascoltare il suo cercare di gonfiare il suono, senza guadagnare nulla dal punto di vista del volume; gli armonici non si spandono nella sala, poiché ella non utilizza l'intera ampiezza della maschera; in questo modo il suono risulta strozzato e la voce non gira mai correttamente. Se così deficitaria è stata la resa vocale, ancor peggiore è stata quella interpretativa: il fraseggio è completamente piatto e spesso scade in un parlato proprio della peggior tradizione verista - s'intenda, non del verismo. Violetta con il suo fascino è completamente assente dal palcoscenico: dopo il duetto del primo atto “Un dì, felice, eterea” guadagna con il tenore un meritatissimo “bu” dalla platea. Se il primo atto è completamente da dimenticare, le cose non migliorano nei due successivi e quando si richiederebbe un approccio più lirico al personaggio non si percepisce il minimo pathos. Non serve gridare “È tardi!”, nel terzo atto, perché la prosodia musicale verdiana fa già tutto da sola. Se abbiamo criticato la scelta di non intonare interamente l'Addio del passato, in occasione della prima, quello eseguito da Jessica Nuccio non è stato altro che un patema che andava ad assommarsi agli innumerevoli già sofferti dalla Signora dalle camelie. Hoyoon Chung (Alfredo) avrebbe mezzi superiori rispetto alla collega, ma la sua tecnica è anche peggiore. Se prima si è parlato di scarsa proiezione, ora dobbiamo parlare di proiezione inesistente. La sua è, inoltre, un'interpretazione completamente superata del ruolo, con portamenti fastidiosi, inutili e ridondanti, accenti eccessivi e una dizione deficitaria. Il tenore sparisce completamente nel concertato che chiude il secondo atto, eseguito, di fatto, senza Alfredo, poiché la sua voce era comperta da tutti gli altri cantanti.
Simone Piazzola (Giorgio Germont) si conferma sugli eccellenti livelli della domenica precedente, con un canto sontuoso ed elegante. La pasta della voce è ottima e il timbro molto bello. Il suo livello musicale e interpretativo è elevatissimo nonché di rara qualità.
Fra i comprimari dobbiamo registrare la serata infelice di Antonello Ceron, come Gastone: la voce oscilla al primo accenno del tenore, che scorda persino di entrare in scena per pronunciare la celebre frase “Ebben, che diavol fate”. Vista questa mancanza il “Si folleggiava” di Violetta risulta totalmente insensato. Negativa, ancora una volta la prova di Elena Serra, che strappa addirittura una risata dalla platea nel secondo atto, ponendosi a cavalcioni del barone: quella non sarebbe propriamente una scena pregna di ilarità. Ancora una volta positiva, viceversa, l'Annina di Alice Marini, ben caratterizzata scenicamente e incisiva vocalmente. Il mezzosoprano ha un colore vocale molto scuro, ma riesce, comunque, a rendere frivolo il ruolo della cameriera di Violetta. Nicolò Ceriani è un ottimo Barone Douphol, incisivo nel fraseggio e attore straordinario. Bene le altre parti di contorno: Francesco Pittari (Giuseppe) ha una voce non imponente, ma è molto preciso sotto l'aspetto musicale. Dario Giorgelè è il Marchese d'Obigny; Gianluca Breda il Dottor Grenvil Romano dal Zovo un domestico e il commissionario. Sembra preoccupante che il miglior tenore della serata si sia rivelato Giuseppe, ma questo abbiamo avuto modo di ascoltare.
Marco Boemi non è direttore di personalità e evidenzia tutti i suoi limiti, privato di cantanti di livello.
La sua bacchetta è discreta nei due preludi, ma quando siano presenti Violetta e Alfredo, il maestro perde il controllo dei professori d'orchestra, lasciando ottoni, legni e percussioni al proprio soverchiante destino nei confronti dei poveri archi dell'orchestra. Prima della cabaletta di “Ah, fors'è lui” non pone alcuna pausa, timoroso forse del “bu!” di poco prima, e fa lo stesso dopo “Parigi, o cara”. I tempi sono spesso allungati allo sfinimento, alla vana ricerca di colori e sfumature, completamente avulse rispetto a ciò che accade sul palco.
Non vanno imputate colpe all'orchestra, che tenta di seguire il direttore quando può e asseconda le sue dinamiche.
A causa della pochezza dei due protagonisti, la regia di Brockhaus perde tutto il fascino e la poesia che avevamo ammirato pochi giorni or sono.
Se vogliamo registrare dei trionfatori della serata, questi sono senza dubbio lo straordinario coro della Fondazione Lirica Arena di Verona (diretto nell'occasione da Vito Lombardi), proprio di un amalgama, un'omogeneità e una personalità del suono che riescono sempre a stupire. Una volta di più il complesso areniano si pone al di sopra di molti altri cori italiani e stranieri.
Di livello ancora superiore e precisione impeccabile i cinque ballerini (a cui si aggiunge una bimba) che accompagnano entrambe le feste: prima ospiti a casa di Violetta, poi protagonisti in quella di Flora. I passi sono eseguiti con elegante grazia e possono essere apprezzati ancora di più a una distanza maggiore dal palco. E' un vero peccato che i nomi della bambina, delle tre danzatrici e dei loro due colleghi uomini non fossero indicati in locandina, perché avrebbero certamente meritato una citazione. Il nostro plauso cumulativo va, comunque, al direttore del corpo di ballo, Renato Zanella.
Le luci erano a cura dello stesso Brockhaus, i bozzetti scenografici di Josef Svoboda, la ricostruzione scenografica di Benito Leonori, i costumi di Giancarlo Colis e la bella coreografia di Valentina Escobar.
L'allestimento è nella versione per teatri al chiuso di proprietà della Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi.
L'appuntamento con la fondazione Arena è per il balletto XX secolo di metà febbraio, mentre la lirica tornerà protagonista con il dittico fra danza e musica El amor Brujo\Cavalleria rusticana.