di Emanuele Dominioni
I complessi musicali del Teatro Regio concertati da Donato Renzetti danno vita alla superba cornice sonora che cinge l’intenso dramma di Suor Angelica, e hanno assicurato ancora una volta il successo ad uno spettacolo ben plasmato dal regista Andrea De Rosa, orfano però di una protagonista vocalmente all’altezza.
Nell’economia drammaturgica e compositiva che Puccini riteneva necessaria per la realizzazione dei tre quadri del trittico, Suor Angelica si riaggancia per molti aspetti contenutistici e formali all’esperienza di Madama Butterfly di qualche anno prima. Entrambi i soggetti, infatti, condividono una parabola emotiva tutta incentrata su un’unica protagonista, ci mostrano due donne estranee e invise al contesto in cui sono obbligate a vivere e, soprattutto, che sacrificano entrambe la vita nella loro dimensione di madri negate. Ma qui, più che in Butterfly la sofisticata trama sonora che accompagna la vicenda della giovane suora ne disegna una figura trasfigurata già al suo primo apparire in scena. Angelica è come proiettata in un’altra dimensione rispetto alla vita del monastero che ci viene illustrata nei primi quadri dell’opera. Così la trasfigurazione vera e propria che avviene nel finale non è da intendersi (come le prime critiche erroneamente fecero) quale manieristico e iconico momento staccato del dramma, ma quale esplosione parossistica e alienante della vicenda esistenziale di Angelica e dei sette drammatici anni trascorsi in convento.
La lettura registica di Andrea De Rosa si snoda proprio intorno all’impronta claustrofobica e nichilistica che permea il dramma claustrale di Puccini. Visivamente ci troviamo all’interno di una casa di cura-convento di epoca novecentesca. L’idea di posporre la vicenda di ben tre secoli in avanti è parsa particolarmente azzeccata nel tentativo raggiunto di ottenere un fortunato parallelo temporale con la musica di Puccini, e più in generale di farci avvicinare con maggiore coinvolgimento emotivo alla tragica vicenda della protagonista. Tutto il boccascena era delimitato da un'enorme grata che fungeva da prigione e all’interno della quale si era catapultati in un’asettica e sconcertante realtà di ospedale psichiatrico. De Rosa ci mette di fronte a una ambientazione fredda e apatica in cui la malattia mentale è come chiusa in un involucro lontano dagli occhi del mondo. Involucro fatto di suore operose che si occupano di consorelle ormai non più lucide e con facoltà mentali perdute, medici e infermiere che si affaccendano per mantenerle tranquille, in un’atmosfera dove il senso dell’ordine - a ogni costo - si infrange costantemente contro la folli movenze delle malate. Non è un caso quindi che, allorquando Angelica spira, lo faccia al di fuori di questa prigione esistenziale e fisica (oltre le sbarre, avanzando verso il proscenio) che l'ha costretta per sette anni, e questo atto estremo di fuga venga letto dal regista come fuga dalla vita. Di grande impatto l’uso delle luci di Pasquale Mari, nel suggerire e ricreare l’atmosfera opaca e crepuscolare del convento; di taglio tradizionale invece i costumi di Alessandro Ciammarughi.
La figura di Angelica, interpretata da Amarilli Nizza sta a metà fra le suore e le pazienti. Nel trovarsi inevitabilmente sia nell’una che nell’altra veste, ella è l’unica a mostrare pietà e comprensione verso le malate, e l’unica a infrangere le barriere fisiche della “prigione”. In perfetta sintonia con la lettura di De Rosa, Amarilli Nizza interpreta e recita magistralmente, muovendosi con sapienza teatrale e tensione anatomica non comuni. Dispiace però che il mezzo vocale mostri molte lacune tecniche davvero lampanti. La voce infatti appare spesso intubata nelle estremità dell’estensione e in troppi momenti è sovrastata dall’orchestra. Ne consegue che l’apprezzabile morbidezza e rotondità dell’emissione vadano spesso a discapito della chiarezza del testo e di una precisa intonazione. Sulla carta l’interprete avrebbe ben poche rivali attualmente nel panorama lirico in questo repertorio, ma la linea vocale dovrebbe essere accuratamente rivista e assestata.
Anna Maria Chiuri è parsa perfettamente in sintonia col perfido ruolo della Zia principessa a lei assegnato. Nonostante registicamente venga spesso delineata una figura di algida cattiveria tout court, la percepiamo in questa sede come un personaggio più sfaccettato, che arriva financo a commuoversi durante il racconto del bimbo morto, e partecipe emotivamente alla straziante vicenda della nipote. In questo oltre che lodare la Chiuri per l’accurata recitazione e intenzione scenica, segnaliamo una resa vocale davvero magistrale.
Di valore anche le prove di Damiana Mizzi come suor Genovieffa e Claudia Marchi (Maestra delle novizie), e del folto cast di comprimarie, davvero valide scenicamente e vocalmente. Su tutti però la palma del migliore della serata va a Donato Renzetti, e alla grande maestria dimostrata nel guidare l’ottima orchestra del Teatro Regio, capace di dar vita a sonorità di rara bellezza e sempre attente alle necessità del palcoscenico.
Nota di redazione. Un imprevisto accorso durante il viaggio verso Torino ha reso impossibile al nostro corrispondente arrivare in tempo per assistere anche a Goyescas di Granados, presentata in dittico con l'opera pucciniana. Siamo spiacenti, dunque, di non poterne rendere conto, per cause di forza maggiore del tutto indipendenti dalla nostra volontà.
foto Ramella Giannese