di Francesco Lora
Anna Caterina Antonacci aggiunge trionfalmente al proprio repertorio un nuovo titolo gluckiano: Iphigénie en Tauride. Intorno a lei prendono posto, al Grand Théâtre di Ginevra, il direttore Haenchen, il regista Hemleb e i colleghi Taddia e Davislim.
GINEVRA, 25 gennaio 2014 – Di un debutto di Anna Caterina Antonacci nell’Iphigénie en Tauride di Christoph Willibald Gluck si parlava già quasi tre lustri or sono: sede doveva esserne il Teatro Comunale di Bologna, allora sotto la direzione di Luigi Ferrari e Gianni Tangucci, ma il progetto sfumò nel nulla e non se ne parlò più. Per chi professa il gluckianesimo, quelli erano gli anni nei quali Riccardo Muti giocava alla Scala le carte dell’Alceste, dell’Iphigénie en Aulide e dell’Iphigénie en Tauride, fino all’asso calato nel 1996 e 1999 con l’Armide: a scorrere le locandine di quest’ultima vengono oggi i brividi, ché alle firme di Muti e di Pier Luigi Pizzi, all’apice del loro fasto artistico, si aggiungeva una schiera di seconde parti rette, tra gli altri, da Norah Amsellem, Violeta Urmana, Giuseppe Filianoti, Juan Diego Flórez, Simon Keenlyside e Gregory Kunde; protagonista era l’Antonacci, incoronata regina delle tragédiennes e dunque candidata ideale e naturale al passaggio a Iphigénie. Da allora a oggi, i trionfi nelle due Alceste di Gluck, nella Medea di Cherubini e nei Troyens di Berlioz, ma anche nella Nina di Paisiello, hanno dimostrato quanto giusto per lei e urgente per gli altri fosse quell’indirizzo di repertorio.
Eppure, per il suo debutto nella ventilata Iphigénie en Tauride si sono dovute attendere le recite ora in corso al Grand Théâtre di Ginevra (25 gennaio - 4 febbraio). Nessuna sorpresa e conferme maiuscole. Quello dell’Antonacci è un codice culturale e stilistico noto, fermo, risaputo, forbitissimo. In esso e su esso v’è ormai poco da aggiungere. Non sono ammesse rivali davanti alla cura maniacale della parola, nella sua pregnanza espressiva, nella sua consistenza fonetica e nel suo dispiegamento retorica. Timbro altero e malinconico, di inconsueto calore nei centri, e gesto tanto sollecito quanto coturnato conciliano nella sua lettura musicale e attoriale il realistico e il declamatorio, l’appartenenza al moderno e la conoscenza dell’antico. Tale è la completezza dell’artista, altrimenti inusitata sulle scene liriche, che nella tempesta iniziale dell’opera, dopo una pantomima superbamente dominata, quando la cantante attacca le sue prime battute, solo allora ci si sovviene che ella è lì per essere ammirata non solo alla vista ma anche all’ascolto. Alla mente rimarrà dunque, ancora una volta, un paradigma di arte musicale e teatrale, atteso e confermato, completo e stabile poiché non esibito nell’istinto di un momento, bensì compreso in un percorso artistico erudito, sorvegliato, maturato sulla padronanza di molte discipline.
Nello spettacolo ginevrino, tutto il resto è di vaglia ma passa in subordine rispetto allo stradominio carismatico della primadonna. Interessante soprattutto a parole è la presenza di Hartmut Haenchen come concertatore: la sua specializzazione in Wagner e Mahler basta a spiegare in nome di chi egli sia stato convocato a leggere Gluck. Detto non più un ventennio fa, ma oggi e in conclamata epoca di esecuzioni storicamente informate, l’incoraggiamento di turgide letture tardoromantiche pare sempre più un’anacronistica sopravvivenza culturale. Tuttavia, se Haenchen è un Kapellmeister non troppo sensibile alle sottigliezze letterarie e ornamentative del classicismo francese, in lui si rileva parimenti la volontà di rivolgere lo sguardo verso il Settecento, e di adottare, accanto a tempi piuttosto seduti e a fraseggi caparbiamente legati, impasti lievi se non edenici, escursioni dinamiche contenute, infine una sincera dedizione al testo musicale e al mestiere del cantante. Il tutto in armonioso dialogo con l’Orchestre de la Suisse Romande, il coro del teatro e una compagnia di canto non sublime ma decorosa.
Merita curiosità prima e lode poi la prestazione di Bruno Taddia come Oreste, cioè quella di un baritono leggero, dedito perlopiù a parti buffe, in uno dei ruoli tragici per antonomasia. Avviene che egli riversi nell’eroe euripideo l’acume maturato passando da Taddeo a Figaro a Malatesta, con esiti attoriali interessanti poiché frastagliati nella psicologia e svelti nel modulare di risorse. Regge inoltre senza troppo sforzo e con limitata perdita di smalto una tessitura assai acuta, codificata in chiave di Basso ma di fatto alle soglie della gamma tenorile: sono così arginati i danni di un’errata interpretazione delle categorie vocali, nel percorso dal Settecento francese, con la sua scuola declamatoria e il suo corista più grave di un buon semitono, ai giorni nostri, dove tutto tende alla globalizzazione e dove la macrocategoria vorrebbe costringere a sé il fenomeno come un letto di Procuste (leggi: il baritono di Gluck condivide con quello di Donizetti il nome ma non l’essenza, e il concetto non è facile da disaminare con direttori artistici e case di produzione; nelle loro ragnatele finiscono cantanti incauti o senza voce in capitolo).
Nell’errore di valutazione appena descritto cade invece Alexey Tikhomirov, basso tecnicamente imperniato sulla pastosità del registro centrale: con lui nella parte di Thoas, ognuna delle innumerevoli salite al registro acuto (acutissimo, per un basso autentico) si risolve nella disperazione di portamenti sforzati. Come dire che i miracoli fatti da Ildar Abdrazakov come Calchas nell’Iphigénie en Aulide milanese del 2002, voli al Sol3 compresi, non andrebbero evocati lontano dalla santità manifesta: la prossima volta, a Ginevra cerchino il baritono che la scrittura vocale sottintende, e non l’emulo di Ramfis o del Padre Guardiano. Acutissima, secondo la tradizione francese dell’haute-contre, è anche la parte di Pylade, qui sostenuta da Steve Davislim con rotondità e morbidezza alle inevitabili soglie del falsetto.
La regìa di Lukas Hemleb, le scene di Alexander Polzin, i costumi di Andrea Schmidt-Futterer, l’assistenza coreografica di Joanna O’Keeffe e le luci di Marion Hewlett procurano una realizzazione teatrale inedita e rispettosa di quella musicale. Nella ricostruita cavea megalitica di un teatro greco agiscono personaggi e masse tutti raddoppiati da una marionetta a grandezza quasi naturale e manovrata a vista. Ciascun attore-personaggio, con la fluida mobilità del proprio corpo, interloquisce così con il proprio raddoppio psicologico, fantoccio inespressivo e rigido nei movimenti, o con gli altri attori-personaggi ora fatti di carne e ora di legno. Non sempre si coglie la ragione dell’espediente, da intendersi innanzitutto come cifra del teatro di Hemleb, ma la straniata atmosfera creata nell’istante rappresentativo e la materia di libera riflessione a margine dello spettacolo rispondono puntuali all’appello.
foto Carole Parodi