di Valentina Anzani
In scena al Teatro alla Scala l’imponente Die Soldaten di Bernd Alois Zimmermann in una realizzazione scenica aggressiva, ma inoffensiva.
Milano, 31 gennaio 2015 – “Una puttana non lo è stata fino a che qualcuno non l’ha resa tale”. È la frase che più colpisce del libretto dell’opera Die Soldaten di Bernd Alois Zimmermann, in scena al Teatro alla Scala lo scorso gennaio, nel cinquantesimo dalla prima assoluta, nell’allestimento scenico che Alvis Hermanis aveva ideato per il Festspiele di Salisburgo del 2012. Il testo è tratto dallo stesso Zimmermann dal dramma teatrale del letterato Jakob Lenz, il quale collocava nella propria contemporaneità, il XVIII secolo, una vicenda che la musica del compositore tedesco ha reso attuale in ogni tempo: la libidine degli uomini e l’ambizione delle donne che si contendono il terreno dell’onore e della posizione sociale, tradotto in una trama in cui le truppe si accampano in un territorio, i soldati adescano le ragazze, e con lo spostarsi del reggimento le abbandonano alla loro sorte disonorata. Marie poi, la protagonista della vicenda è anche una ragazza di umili origini che intravede nel corteggiamento di un ufficiale la possibilità di elevazione sociale. La colpa del suo cedimento è la somma delle colpe degli uomini che la circondano – il padre che la istiga sottilmente, il fidanzato che dubita di lei quando ancora è innocente, i soldati di ogni gerarchia – , che a loro volta hanno però imparato ad agire male per colpa delle rispettive madri. L’influenza negativa di queste ultime è tra gli elementi maggiormente in rilievo in questo allestimento scenico, che evidenzia come il loro atteggiamento oppressivo abbia impedito la formazione dei figli maschi come uomini integri e consci delle proprie responsabilità, lasciandoli invece succubi delle proprie pulsioni. Se le madri hanno tutte aspetto dignitoso e perpetrano la loro violenza in modo sottile, il risultato delle loro subdole insinuazioni si riversa sull’agire violento degli uomini, i soldati, numerossissimi e irrefrenabili nell’espressione delle loro voglie.
Assoluto plauso va al direttore Ingo Metzmacher che ha avuto l’onere e l’onore di tenere le fila di un’opera di tali dimensioni. Die Soldaten infatti è tanto complessa da richiedere l’intervento di ampie masse strumentali, coadiuvate dagli effetti sonori prodotti dalle elaborazioni elettroniche e dalle percussioni, provenienti da altre sale e diffusi dall’impianto di amplificazione. Grazie a un percorso acustico frutto della sequenza di amplificatori disposti in vari punti del teatro e usati di volta in volta, si sono ottenuti effetti di disorientamento e, allo stesso tempo, di grande coinvolgimento. Altri effetti percussivi provenivano direttamente dal palcoscenico, affidati a cantanti e comparse.
Le parti vocali erano più di 15 e toccavano un’ampia gamma delle possibili vocalità, dal basso profondo (come la parte del viscido padre di Marie, interpretato da Alfred Muff, cui era destinata una linea vocale suggestiva quasi esclusivamente da eseguirsi in un gravissimo sprachgesang), al soprano di coloratura, oltre alle parti recitate affidate alle comparse dell’ensemble Il Canto di Orfeo. Il pregio principale della produzione è stata la capacità di ogni inteprete di dare una caratterizzazione vocale aderente a ciascun personaggio, soprattutto nei casi di Daniel Brenna, tenore che scivola con disinvoltura dai suoni di testa acutissimi allo sprachgesang e dipinge alla perfezione con la propria voce il profilo dell’ufficiale borioso Desportes, il primo a sedurre Marie, e del baritono dal tono sentenzioso e profetico Boaz Daniel, interprete del cappellano militare, unico che tenta di redimere i soldati dai loro comportamenti inappropriati. Del tutto diverso per grana vocale e intenzione nell’eloquio è stato Thomas E. Bauer, baritono anch’egli, ma destinato a toccare le corde più acute del promesso sposo tradito di Marie, Stolzius.
A dispetto dell’imponenza della scenografia, la regia era in realtà abbastanza neutra e, nonostante le evidenti intenzioni provocatorie, è stata inoffensiva. Risultano infatti gratuiti gli atteggiamenti osceni dei soldati (voluti estremamente espliciti) e aride le metafore insite in alcuni elementi ricorrenti (come la paglia, caricata di una forte connotazione sessuale) se non sono assecondati da un’aderenza alla verosimiglianza di tutte le parti coinvolte. Ne è stata un esempio la presenza di Laura Aikin nei panni della protagonista Marie, con le sue accidentatissime salite in acuto picchiettate, le sue sezioni liriche e i passi in parlato: la sua voce era certo adatta al ruolo, ma l’interprete ha perso gran parte della propria intensità drammatica a causa della presenza scenica grossolana. Al contrario si è distinta Gabriela Berňačková per la sua voce scura da mezzosoprano e il portamento altero che hanno dato grande potenza al suo personaggio della madre di un giovane e inetto conte, forse la più crudele tra le madri dell’opera perché si presenta a Marie con maggiore gentilezza, malcelando sotto la sua offerta pietosa di accoglierla come dama di compagnia un’ennesima volontà di controllo sulla ragazza.
Quello ideato da Hermanis era, in ogni caso, un impianto registico che ha permette l’evolversi contemporaneo delle scene, come da libretto: è un teatro, quello di Lenz in cui le unità aristoteliche di tempo, spazio e luogo sono totalmente accantonate perché sia la vicenda, con la forza centripeta delle relazioni tra personaggi, ad avere la sua propria, autonoma, unità. La musica di Zimmermann, a tratti straniante ma non priva di momenti melodici, aderisce totalmente a questa poetica, dotandosi di una massa strumentale imponente e di stili molteplici. La composizione è seriale, ricca di citazioni provenienti dalla musica colta (corali di Bach) e non (come l’intervento jazzistico all’inizio del secondo atto), coniugate per creare un’opera complessa e crudele, che non vede un solo momento di felicità. Ogni desiderio che viene soddisfatto porta sempre più in basso nella caduta irrefrenabile verso la miseria, la solitudine e la morte.
Zimmermann esprime una visione apocalittica in cui però intravede una possibilità di redenzione; l’opera sembra infatti quasi configurarsi come un avvertimento: mostrare l'orrore perché non si ripeta.
foto Brescia Amisano