di Andrea R. G. Pedrotti
In concomitanza con il Carnevale torna alla Fenice di Venezia il capolavoro donizettiano. Nell'essenziale allestimento di repertorio emergono soprattutto le prove di Alessandro Luongo e Mihaela Marcu, con la gustosa complicità fra l'efficace Dulcamara di Carlo Lepore e il concertatore Omer Meir Wellber
VENEZIA, 7 febbraio 2015 - In un nord Italia funestato dal maltempo, un raggio di luce ci accoglie nella città di Venezia. Superata la suggestione romantica di poter, finalmente, ammirare il disco solare, ben distinto nel cielo e filtrato da una sottilissima coltre di nubi, giungiamo nel divertimento del Carnevale. La tipica maschera veneziana del medico ha per tradizione un naso particolarmente pronunciato, atto a contenere erbe e spezie per filtrare l'aria, tramutandola in una sorta di protezione dai gas ante-litteram. Il naso pronunciato, tuttavia, ci rimanda anche all'immagine del bugiardo, e quale medico fu più bugiardo del dottor Dulcamara? Certo, se la scelta può essere motivata dalla ricerca, per il Carnevale, di un titolo brillante e popolare, piace pensare per questo Elisir d'amore alla Fenice di Venezia anche ad altre suggestioni, e a un Dulcamara che si possa aggirare mascherato per le calli prima di raggiungere il teatro.
In una sala quasi completamente esaurita, il pomeriggio si è svolto con alterne vicende e risultati ora entusiasmanti, ora deludenti. È bene fare una premessa: quando La Fenice è stata ricostruita, grande cura è stata riservata all'aspetto estetico e della sicurezza, ma non altrettanta a mantenere una corretta acustica, che risulta sorda, ovattata e, talvolta, rimanda un fastidioso eccessivo riverbero, quasi un'oscillazione, specialmente quando gli interpreti vogliano liberare l'acuto non estremo. Prova tangibile è il fatto che il dottor Dulcamara della produzione (Carlo Lepore) nel finale entra in platea e, da vicino, la voce risultava perfettamente centrata, mentre il problema veniva a galla - non per pecche dell'artista - dal palcoscenico; inoltre, se la proiezione non è curata alla perfezione, gli interpreti sono ben udibili solamente quando si trovano in proscenio. Ovviamente questo è un giudizio basato su un ascolto dal fondo della platea e può essere differente in altri punti del teatro. Facciamo salva questa doverosa precisazione, di cui bisogna tener conto.
Lo spettacolo cui abbiamo assistito ci ha posto dinnanzi un allestimento molto semplice, facile da mantenere in repertorio e conservare in magazzino; le scene sono pressocché inesistenti: quinte a vista, un telo sul fondo con stampe d'epoca e un praticabile di legno, che funge da palco per l'imbonitore, da stilizzata stanza di Adina, o da tavola per il banchetto nuziale. Molto è lasciato alla personalità degli interpreti: poche idee piuttosto scontate - per esempio le due ausiliarie\sexy infermiere, che accompagnano la sortita di Dulcamara - o non condivisibili, come quella di far indossare ad Adina un bellissimo, ma completamente avulso da un'uniformità stilistica, tailleur al principio del finale primo (“Caro elisir, sei mio”), per poi lasciare il personaggio in sottoveste nell'atto di compiere una controscena più adatta a una Manon di Massenet. La scelta è giustificata dal voler mettere in mostra la frivolezza di Adina, tuttavia Mihaela Marcu sapeva benissimo trasmettere tutte le sfumature psicologiche del personaggio. La cantante rumena è interprete estremente raffinata ed elegante, perciò è riuscita a non scadere mai nella volgarità, permanendo decisa nei margini dell'estrema sensualità. È un confine pericoloso, che molte altre cantanti rischierebbero di oltrepassare, nell'appoggiarsi a una stilizzata porta o mettendosi a cavalcioni di una seggiola.
Davvero gustosa, al contrario, l'idea di sostituire il direttore d'orchesta -Omer Meir Wellber- con Dulcamara, trovando il maestro pronto a tornare al suo posto di comando del golfo mistico di gran carriera, e con un costume identico a quello del dottore. Distraeva leggermente, ma è risultato simpatico, anche il lancio dal loggione numerosi volantini bianchi, rossi e verdi, con la pubblicità del farmaco incantato, allusione alla celeberrima scena del film Senso ambientata nello stesso teatro.
Nella compagnia di canto vogliamo segnalare l'eccellente prestazione di Alessandro Luongo, come Belcore. Il baritono toscano ha una bella voce e tecnicamente è ineccepibile. Estremamente disinvolto in scena, inquadra benissimo il personaggio, con personalità e stile. Bene anche Carlo Lepore, nel ruolo di Dulcamara: il canto è pulito e lineare, ilfraseggio ben calibrato. Scenicamente il suo personaggio è molto classico, ma efficace e sempre misurato, senza mai scadere nel caricaturale. Il costume che indossa è l'unico che presenti delle bizzarrie, infatti una vistosa parrucca rossa sottolineava la stravaganza del medico girovago.
Ottima conferma Mihaela Marcu: la voce è ampia e il timbro pastoso, proprio di un'Adina di gran carattere, come dovrebbe essere la giovane fittaiuola. Da rimarcare la facilità di un'emissione mai forzata o tesa a gonfiare il suono. Il canto non perde in alcun attimo di spessore nei registri, che risultano ben calibrati. Quale che sia la posizione sulla scena, il suono arriva sempre perfettamente al pubblico, grazie a una tecnica in continua crescita e a una notevole ricchezza di armonici. Effettivamente, come ci affermò lei stessa in un'intervista [leggila qui], la sua voce risulta molto adatta a questo tipo di repertorio, grazie a una pregevole elasticità nella coloratura. Da notare, inoltre, i miglioramenti nell'estremo acuto, in cui s'è prodigata durante la cabaletta “Il mio rigor dimentica”, mantenendo peraltro una rimarchevole omogeneità sia nel volume, sia nel colore. Il suo punto di forza rimane, comunque, l'interpretazione: attrice straordinaria, non sbaglia mai un accento, curando al meglio il fraseggio. È struggente quando serve (il suo modo di porgere la frase “lo compatite, egli è un ragazzo” è notevolissimo), simpatica e disinvolta in altri momenti. Molto abile nel danzare un frenetico can-can, nel duetto con Dulcamara, senza perdere mai il fiato o la linea di canto.
Completamente antitetica a quella della Marcu la prova di Giorgio Misseri, che raggiunge una stentata sufficienza nel canto e una sonora bocciatura come interprete. Sulla scena appare quasi svogliato, il canto è piatto e il fraseggio scolastico. Si apprezzano in lui la bellezza del timbro e lo squillo di acuti ben eseguiti, ma non basta. Non partecipa mai alle controscene e le poche trovate registiche che dovrebbero strappare le risa del pubblico sono rese inefficaci. Un grosso problema anche la proiezione: il suono si affievolise quando non sia rivolto al pubblico dal proscenio, debba insistere su una tessitura più centrale o venga richiesto un approccio più lirico. Uno dei momenti più belli dell'opera (“Adina, credimi”) passa come un esercizio di solfeggio. Il suo apice sarebbe “Una furtiva lacrima”, se l'attacco non fosse stentato e l'aria eseguita senza trasporto. Si può capire che non sia facile reggere il confronto con artisti del carisma di Alessandro Luongo o Mihaela Marcu, ma da un tenore non esordiente, per quanto giovane, si pretende molto di più.
Giannetta, infine, era Arianna Donadelli.
Omer Meir Wellber conosce benissimo la partitura, i pregi e i difetti del teatro la Fenice, perciò non cerca delle sonorità poco adatte alla sala e insiste su una appropriata teatralità. Accompagna i cantanti, seguendone le caratteristiche. Ottime le dinamiche, con qualche sbavatura solo all'inizio del secondo atto, quando i professori d'orchestra non palesano particolare attenzione.
Il coro del teatro la Fenice, diretto da Claudio Marino Moretti, non è completamente omogeneo e il colore risulta, ancora una volta, troppo chiaro e di scarsa personalità.
Bepi Morassi firmava la regia. I classici costumi (a eccezione di ciò che si è detto) erano di Gianmaurizio Fercioni, così come le scarne scenografie. I quasi inesistenti movimenti coreografici (non si possono definire tali l'ancheggiare delle due aiutanti di Dulcamara e qualche girotondo del coro) di Barbara Pessina. Il maestro al fortepiano era Maria Cristina Vavolo.
L'allestimento è di proprietà dello stesso teatro La Fenice di Venezia.
Al termine grandi applausi per tutti, con ovazioni per la Marcu.