di Emanuele Dominioni
Dopo la defezione di Daniela Dessì - sostituita all'ultimo momento da Maria Billeri - non tutto fila liscio nella Turandot allestita al Teatro Coccia di Novara. Un allestimento che già nella dichiarazione d'intenti della poetica registica (e della scelta di un coro non professionista) si presenta come segnato dalla crisi economica.
NOVARA, 6 febbraio 2015 - Nei giorni imbiancati dalla tanto attesa neve al Nord, va in scena al Teatro Coccia di Novara Turandot, capolavoro ultimo di Giacomo Puccini. Febbrile era l'attesa verso questa produzione la quale poteva fregiarsi sulla carta di un cast blasonato comprendente i nomi di Daniela Dessì (poi sostituita dal Maria Billeri), Walter Fraccaro e Bruno Praticò.
Nella piccola realtà novarese il forte richiamo verso il noto titolo pucciniano e un siffatto parterre di voci è bastato per tributare alla serata un caloroso successo, che porta seco però le molte ombre di una produzione davvero poco valorizzata e in ultima analisi dai tratti invero provinciali. La defezione annunciata poche ore prima della generale da parte di Daniela Dessì non lascia dubbi circa le motivazioni di quest'ultima, che vanno oltre la dichiarata indisposizione; fonti degne di fede, infatti, parlano di possibili incomprensioni fra la diva e la regista Mercedes Martini. Al di là delle voci non ufficiali una volta assistito allo spettacolo ci si rende perfettamente conto che il contesto scenico e musicale non avrebbero permesso una performance adeguata al nome della Dessì.
Secondo quanto dichiarato dalla regista, la sua Turandot è una principessa dei poveri che regna su un popolo schiavizzato in balia della sua alterità. "Oggi in piena crisi abbiamo avuto pudore a rappresentare ricchezza, palazzi imperiali e sfarzi" dichiamara la Martini. Da ciò nasce l'idea di una Turandot metafora della contemporaneità, che resta però ambientata in un epoca lontana e indefinita, come da libretto. Nel ricreare questo ponte ideale coi giorni nostri, la regista cade però nell'equivoco di fondo: l'estetica stilizzata dei personaggi e il carattere fiabesco di Turandot la pongono comunque in una dimensione "altra" rispetto all'orizzonte contemporaneo e le sue dinamiche sociali. L'astrattismo scenico evocato "a metà fra i sobborghi di Pechino e i capannoni di Prato" oltre a rimanere solo sulla carta, si perde nell'incomprensione e nella mancanza di una visione registica teatralmente valida e unitaria. L'Oriente evocato da Puccini come qualcosa di esotico e lontano, e qui rivisitato come mondo vicino e ormai integrato al nostro, finisce per svilire il carattere misterioso e recondito dell'opera. Lo stesso processo di umanizzazione che la protagonista subisce durante la vicenda (e che il libretto è riuscito magistralmente a risolvere, allontanandosi in tal senso dalla novella di Gozzi) in questo contesto è parso pallido e quasi del tutto inefficace visto che Turandot è percepita da subito come una figura, sì, tirannica ma assai ridimensionata. In ultima analisi le molte idee espresse dalle note di regia e messe a disposizione del pubblico in sala, non trovano una trasposizione teatrale adeguata e ciò fa presumere che le reali motivazioni di questa cortocircuito vadano a ricercarsi in una scarsità di risorse. In questo senso in taluni momenti ci si trovava di fronte a scelte al limite della credibilità come l'instabile e goffo piedistallo su cui avanza Turandot al suo ingresso in scena, per tacere della totale mancanza di dinamismo scenico espresso dalla massa corale. Non si spiega inoltre la scelta di utilizzare delle attrici donne come guardie per arginare la folla durante la scena degli enigmi e in quella della morte di Liù, né la mancanza di attenzione verso la recitazione dei cantanti, di stampo manieristico e poco ricercata.
A salvare le sorti della prima del 6 febbraio viene convocata all'ultimo momento Maria Billeri, soprano lirico spinto che negli ultimi tempi approccia anche ruoli dalla vocalità ben più drammatica. Fresca del debutto cagliaritano nel personaggio di Turandot, la incontriamo qui in una serata decisamente sottotono, inficiata, come crediamo, dall'improvvisa chiamata e di conseguenza dalle poche prove. La Billeri tende alla spinta costante del proprio strumento, che benché le consenta di modellare un fraseggio partecipe e incisivo, finisce per offuscarne la resa vocale attraverso suoni poco a fuoco e oscillanti. Anche se indubbiamente la voce negli anni ha acquistato corpo e peso notevoli, le consigliamo una maggiore cautela nell'approcciarsi a questo tipo di repertorio, pregno di impervie difficoltà per una voce lirica più che drammatica, per quanto corposa, come la sua.
Walter Fraccaro ha il pregio di possedere la vocalità adeguata alla scrittura di Calaf, che gli consente, nonostante un timbro non proprio accattivante e molti vezzi vocali al limite della corretta intonazione, di portare a casa una performance di tutto rispetto. Il pubblico gli tributa un largo successo ricambiato con un bis del celebre "Nessun dorma".
Brilla nel cast la Liù di Francesca Sassu dotata di voce ben proiettata e di morbida fattezza. Molte sono le preziosità che ella ci regala: filati e pianissimi in particolare sono sciorinati con grande maestria. Il fraseggio e la maturità scenica rimangono ancora parzialmente acerbi, in relazione anche alla giovane età dell'interprete che ci permettiamo però di tenere d'occhio per il futuro.
Incolore la prova del basso Elia Todisco come Timur, la cui vocalità dal peso davvero risibile non gli ha consentito di delineare una figura drammaticamente credibile. Il ruolo di Ping poteva fregiarsi di un interprete di primo ordine quale Bruno Praticò, che ritroviamo in questa occasione purtroppo in disarmo vocale, se pensiamo alla gloriosa carriera alle sue spalle. Matteo Falcier e Saverio Pugliese, rispettivamente Pong e Pang, si distinguono per l'ottima vocalità e una presenza scenica davvero coinvolgente. Buona la prova di Nicola Pisaniello come Altoum e di Daniele Cusari come Mandarino.
A Matteo Beltrami va riconosciuta l'esemplare tecnica direttoriale, e la capacità di comunicare costantemente col palcoscenico e le sue esigenze; la concertazione infatti, è parsa sempre puntuale e precisa sia nei tempi che nelle dinamiche.
Dignitosa ma tuttavia ben lontana dalla sufficienza la prova del Coro San Gregorio Magno, di cui lodiamo l'impegno e la dedizione al servizio di una partitura complessa come quella di Turandot. Visti i risultati restano però forti dubbi circa la scelta di scritturare una compagine non professionista (che per altro non è stata retribuita se non per quanto riguarda i pochi aggiunti), e se quest'ultima sia accostabile a un cast di grandi nomi, ad un titolo difficile come Turandot e più in generale al livello artistico espresso da questo teatro lungo la sua storia.
Foto Mario Finotti