di Stefano Ceccarelli
Al Teatro dell’Opera di Roma si replica la produzione di Rigoletto di Leo Muscato, già andata in scena nell’ottobre dello scorso anno. Questa volta il direttore d’orchestra è Gaetano d’Espinosa, ma il risultato complessivo non cambia: la produzione non convince, né musicalmente, né registicamente. La regia di Muscato, che ha in un certo qual gusto über-trash la sua filosofia ispiratrice, non sa di nulla: stereotipa fino all’estremo, semplificando una poetica musicale molto più complessa e sfaccettata. Le scene, spoglie e disadorne, invece di evocare poeticamente una decadenza morale, sono semplicemente e tristemente vuote.
ROMA, 4 febbraio 2015 – Va nuovamente in scena al Teatro dell’Opera di Roma la produzione di Rigoletto già vista nell’ottobre scorso. La nuova politica dell’Opera prevede − e ben a ragione − di riproporre messinscene di spettacoli già rodati; e l’iniziativa (che avrebbe caratterizzato anche Aida, se la defezione di Muti non l’avesse fatta saltare) è volta a produrre più spettacoli possibile: il che è un bene per un teatro nelle condizioni dell’Opera di Roma. Spettacoli di qualità sarebbero una manna dal cielo, ora più che mai, ed è un peccato che la qualità di questa produzione di Rigoletto sia alquanto discutibile. Il parziale cambio di cast e di direttore (rispetto alle recite del 2014), per giunta, non hanno affatto migliorato la cosa.
Il problema, in primis, è da attribuirsi al direttore d’orchestra. Gaetano D’Espinosa offre una pessima performance, mancando innanzitutto di gusto. Il palermitano appiattisce le diverse agogiche della partitura restituendo un Verdi ridotto al suo esoscheletro ritmico, senza sforzarsi di approfondire la genialità di molte sfumature della partitura; si ostina, poi, nel leggere la partitura cadendo nei più caratteristici errori di una tipica interpretazione ‘pre-mutiana’, avallando le puntature dei vari personaggi e i sovracuti importuni; infine, non rende veramente giustizia alla partitura con un generale grigiore esegetico − Rigoletto non è un’opera che si dirige da sola! L’orchestra, poco stimolata e mal condotta, è in balia di gesti poco chiari e confusi: fa il suo lavoro, certo, ma «sanza ’nfamia e sanza lodo».
Le voci sono molto disomogenee. Il ruolo del Duca di Mantova è maltrattato da Ivan Magrì; una voce intubata, stridulamente metallica, che sfoga solo nel registro medio-alto con una tecnica che mortifica schiacciando il suono, non rende affatto giustizia alla florida, virile bellezza della tessitura del Duca. Non mi riesce, a memoria, di trovare un momento decoroso nella sua interpretazione: forse, ne "La donna è mobile" cerca in tutti i modi di ripulire il suono, ma i risultati sono scarsi. La Gilda di Irina Lungu è vocalmente diafana: un timbro oggettivamente poco attraente e una tecnica poco raffinata le fanno uscire un suono monocorde, privo di ampli armonici, che taglia via molte sfumature vocali che sarebbero congeniali al ruolo. In "Caro nome che il mio cor" conclude con qualche graziosa variazione e un buon trillo, ma è una lanterna nella nebbia della restante interpretazione; "Tutte le feste al tempio" risulta esangue, quando la si dovrebbe eseguire in maniera più struggente, sentitamente patetica; nel duetto col Duca (I atto) siamo d’innanzi a una serie di ‘effettacci’ mal gestiti dai cantanti e dal direttore, che dilata troppo alcune cadenze facendo uscire dai binari gli interpreti. Lo Sparafucile di Marco Spotti è degno di nota per imponenza vocale, possedendo una voce molto scura da autentico basso. Anna Malavasi (Maddalena) emerge, al solito, per la bellezza non solo vocale: la sua interpretazione trasuda di sensualità canora e fisica. George Petean canta Rigoletto e, fortunatamente, la sua tecnica che gli fluidifica la voce, unita a un timbro nobilmente baritenorile, gli consentono di affrontare disinvoltamente il ruolo. Ne sentiamo distintamente le qualità nel suo monologo "Pari siamo!"; trascinante anche la cabaletta del duetto con Gilda alla fine del II, "Sì, vendetta, tremenda vendetta". Peccato condisca la parte delle puntature tradizionali contro cui Muti, principale alfiere dell’edizione critica di questa partitura, tanto s’è battuto. È giunto realmente il momento che queste abitudini (tradizionali, ma sbagliate) terminino di esistere: quanto tempo ancora ci vorrà affinché i cantanti e i direttori si liberino dallo spauracchio della tradizione, fomentato dalla ‘ciddicrazia’ imperante? I comprimari del cast non riescono a farsi ricordare. Una bella serata, invece, ci regala, per fortuna, il coro maschile (Roberto Gabbiani), che è in buona forma.
La regia di Leo Muscato ha il suo perno nella traduzione visiva dell’idea di decadimento morale. Il regista si serve dell’ostentazione di una sovra-dimensione spaziale über-trash, voglio dire esteticamente più che trash. Insegne luminose giganti, enormi capannoni industriali, scheletri di impalcature architettoniche, tende rosse sorrette da cornici barocche con mobilio d’epoca laccato in oro, si alternano a spazi creati da tende trasparenti a mo’ di muri o usi del proscenio con fondale calato a mezzo-palco − e paradossalmente sono questi i momenti visivi più accattivanti che Federica Parolini riesce a creare col buon gioco di luci di Alessandro Verazzi. Questo scenario è condito dai costumi di Silvia Aymonino, di più che discutibile fattura, che sono un mix di idee e esperienze differenti: si va dalle sottane da notte ai frak del coro. La bianca vestaglia che Gilda indossa per mezza recita è l’emblema del lesinare continuo del Teatro dell’Opera. Si dovrebbero riaprire i magazzini storici per mettere in scena produzioni che, se anche non hanno il pregio della novità, possono almeno essere di sicura qualità, sfruttando quel baule di immense ricchezze che sono le scene e i costumi delle gloriose (quelle sì!) produzioni passate. La regia non può che risolversi, spesso e volentieri, in un’accozzaglia confusa d’idee. Certo, il lavoro di Muscato sui movimenti del coro è apprezzabile, come pure qualche idea a proposito della festa iniziale. Ma arranca paurosamente nella gestione registica dei personaggi singoli: il Duca è spesso piantato a centro palco al proscenio a sparare acuti; Gilda fa troppo la civettuola; Rigoletto qualche volta si ricorda di avere una gobba; Sparafucile indugia troppo in modi ieraticamente spettrali, perdendo quel sangue che rende infuocato il ruolo. Il parossismo lo si raggiunge nella scena del rapimento di Gilda, dove Rigoletto non è neanche bendato e tiene una scala sopra la quale non sale nessuno; ben le si accompagna tutta la gestione registica del III atto, dove − per fare un esempio − i personaggi per bussare alla porta di Sparafucile picchiano a terra. Incomprensibile, inoltre, è il motivo per cui Muscato abbia scelto di collocare il coro in fondo alla scena e di illuminarlo mentre canta per simulare il vento nella bufera del III atto (Verdi escogitò questo vero coup de théâtre proprio immaginando un coro, logicamente, retroscenico). Una produzione nient’affatto riuscita, per più fattori, né all’altezza della penultima messa in scena per l’Opera, vista alle Terme di Caracalla cinque anni or sono (dove cantò persino una giovane Pratt).
foto Yasuko Kageyama