di Francesco Lora
Le recite dell’Incoronazione di Poppea al Teatro alla Scala ribadiscono la goffa esegesi dell’opera attribuita a Monteverdi, oggi meglio servita da un regista esteta come Wilson che da un direttore specialista come Alessandrini. Valori alterni nella compagnia di canto, dove Monica Bacelli monta in cattedra per arte retorica.
MILANO, 7 febbraio 2015 – Nel tornare all’Incoronazione di Poppea, quanto più passano gli anni, tanto più sorprende lo scollamento tra l’ingegnarsi e il raggiungere. In una bibliografia sterminata gli studiosi affastellano congetture estrose senza poter fare luce definitiva non solo sulla tradizione di quest’opera, ma anche sulla sua paternità: in testa all’albero genealogico dovrebbe stare Claudio Monteverdi – quando il suo nome non stia a indicare un mitico Omero – coadiuvato o rielaborato da Francesco Cavalli e passato per le mani anche di Benedetto Ferrari, Filippo Laurenzi, Francesco Manelli e Francesco Paolo Sacrati. In questo orizzonte, chi fa la miglior figura tra i musicologi è Lorenzo Bianconi, che sempre ha invitato alla prudenza di attribuzione; e si distingue anche Dinko Fabris, che firma il saggio di punta nel programma di sala dello spettacolo ora in scena al Teatro alla Scala (otto recite dal 1o al 27 febbraio): mentre gli altri stanno a interrogarsi sull’intrinseco mistero e sulla presunta rivoluzione di quest’opera creata a Venezia nel 1643, con un soggetto storico romano dove vincono coloro che calpestano la virtù, egli ricorda che la Repubblica di San Marco si protestò sempre erede dell’impero, compiacendosi di additare in Roma la capitale di vizio e corruzione.
E intanto, tra molte parole, chi se ne sta negletta è la partitura in quanto tale. Anzi, le due partiture conservate manoscritte a Venezia e Napoli, documenti di altrettanti allestimenti nelle stesse sedi. Le molte varianti che le distanziano non procurano all’Incoronazione di Poppea lo status di opera aperta, cioè di testo mobile il cui assetto è lasciato indefinito dall’autore e posto nelle mani del lettore. Al contrario, esse circostanziano due diverse versioni dell’opera, in sé concluse, pronte all’uso e non bisognose di integrazione o contaminazione vicendevole, le quali non lasciano la straordinaria libertà da molti impugnata: come si ritrova d’abitudine almeno sino alla fine del Seicento, il canto è perlopiù sostenuto dal solo basso continuo senza accompagnamento strumentale, e non vi è dunque alcuna strumentazione da ripristinare; a loro volta, le parti strumentali di concerto sono prive di designazione non per dar campo alla fantasia dell’interprete, ma poiché sottintendono l’ovvia assegnazione a strumenti ad arco nei rispettivi registri. Per tornare alla Scala, la lunga premessa si adatta con pochi ritocchi alla lettura offerta da Rinaldo Alessandrini, lo specialista monteverdiano che prepara e dichiara una «collazione acritica, revisione, completamento ed edizione dei manoscritti cosiddetti di Venezia e di Napoli».
Significa questo: libera contaminazione tra le due versioni, libera realizzazione strumentale, libera trasposizione di registri, libero uso di forbici e colla. Tra una pagina e l’altra della partitura, dunque, si va e viene da Venezia a Napoli; come osserva Alessandrini, non si potrà mai avere un’edizione critica che concilii in un solo testo i due testimoni; ma andrebbe anche detto che i medesimi battono vie deliberatamente separate, e che scegliendone uno e lasciando in pace l’altro si godrebbe dell’insussistenza del problema. Terreno accidentato intorno alla realizzazione strumentale: le parti di concerto, com’è giusto, non sono estese per ogni dove, come negli ultimi decenni alla Scala si era sentito fare sia da Nikolaus Harnoncourt sia da Alberto Zedda; in compenso v’è un basso continuo scatenato nel gesto musicale e inudibile nella materia sonora: i tre liuti possono strappare accordi a volontà ma, senza un basso di violino a raddoppiare continuativamente la linea melodica, nell’immensa sala teatrale si tende l’orecchio per afferrare l’indispensabile.
Trasposizione: le parti di Nerone e del Valletto passano dal registro di Soprano a quello di Tenore; si rompe così l’originale equilibrio armonico (massimamente nei duetti) e si viene meno al solito precetto: nel teatro d’opera il sesso del personaggio può coincidere con quello suggerito dal registro vocale, ma quest’ultimo è stabilito dal ruolo drammatico anche in barba al realismo. Quanto a forbici e colla: al presumibile unico scopo di ridurre la durata della rappresentazione (tre ore scarse di musica per non rasentare le quattro) cadono battute sparse, strofe d’aria o intere scene, colpendo anche tutto il commovente primo monologo di Ottone nell’atto II o le apparizioni divine negli atti I (Pallade a Seneca) e III (Venere nel trionfo celeste di Poppea); compaiono, invece, sinfonie aggiunte ad libitum tra una scena e l’altra. Nella lettura di Alessandrini non manca dunque il taglio personale, ma assai spesso sono perse di vista la consistenza oggettiva del testo, la sua bella integrità e la sua realizzazione pratica. E il contraccambio è modesto.
Si diradano invece i pregiudizi intorno all’allestimento scenico, già collaudato all’Opéra di Parigi: Bob Wilson firma regìa, scene e luci; Jacques Reynaud i superbi costumi d’ispirazione secentesca. Avviene che Wilson unisca la sua idea teatro – tutta fatta di luci fredde e movimenti astrattamente estetizzati, in spazi evocati con pochi elementi e senza atmosfera – a una reinvenzione del gesto barocco senza pretese filologiche. Eppure, la retorica gestuale wilsoniana e quella barocca finiscono col rivelare una pasta affine, complice, divertita e fiera di sé, imperniata sulla comune volontà di bellezza coreografica sopra ogni cosa. Del singolo personaggio si indaga non tanto l’emozione individuale quanto il ruolo nel dramma, mediante pose stereotipiche che consentono l’immediata riconoscibilità senza per questo perdere in varietà e vitalità. Nulla turba il discorso della musica e il mestiere del cantante: la concezione di Wilson passa da un attore all’altro con rara chiarezza e omogeneità, a dimostrare un lavoro strenuo e condiviso, insieme con la compagnia di canto, sull’efficacia della recitazione.
Quanto alla numerosa compagnia di canto, il giudizio si fa diverso innanzi a diversi casi. Come Fortuna e Poppea, Miah Persson patisce il non essere italiana per anagrafe e formazione, cosa che nel repertorio musicale secentesco, incardinato sulla sottigliezza della retorica verbale, costituisce un insolvibile peccato originale: quanto più lo studio rivela rigore, tanto più vengono galla la macchinosità della pronunzia e l’estraneità sia del timbro luminoso ma freddo, sia del porgere manierato e innaturale. Seguono altre scelte discutibili. Come Nerone, Leonardo Cortellazzi è fuori luogo non solo poiché tenore in parte di soprano, ma anche perché la vibrante ostentazione del corpo vocale e il frequente trapasso dal canto intonato a eccessi veristi (si ascolti il dialogo con Seneca) evocano intorno a lui, a ogni aprir di bocca, il consaputo paese della Sicilia nel giorno di Pasqua. Come Seneca, Andrea Concetti conferma d’essere il simpatico basso-baritono buffo applaudito in tante opere di Mozart e Rossini, qui però intimidito da una parte che richiede altra autorevolezza d’accento e altra ampiezza di registro centro-grave.
Curiosamente, il Seneca ideale dei nostri giorni sta sullo stesso palcoscenico, in Luigi De Donato alle prese con quattro parti minori: soprattutto nella sua incarnazione di Mercurio si impone la coloratura articolata a regola d’arte, il piglio severo e monumentale, l’agio tecnico nel registro grave. Equilibrate per stile e risorse sono le prove di Luca Dordolo come Soldato I e Lucano, di Adriana di Paola come Arnalta, di Maria Celeng come Drusilla e di Monica Piccinini come Damigella. Resoconto sospeso a proposito di Giuseppe De Vittorio come Nutrice e di Furio Zanasi come Soldato II, veterani l’uno di vis comica e l’altro di eloquio nobile, qui còlti in evidente stato d’indisposizione al pari di Mirko Guadagnini come Valletto. Le ultime parole sono tutte d’elogio. Vanno a Silvia Frigato, un Amore che palesa insieme forbitezza di scuola e brillantezza di carattere; e vanno a Sara Mingardo, l’Ottone più sontuosamente pastoso d’emissione, più aristocraticamente ambrato di timbro e più amorosamente introverso d’espressione degli ultimi vent’anni.
In coda, si rinnova il miracolo di Monica Bacelli: in Virtù e Ottavia, la più erudita cantante italiana oggi alle scene incontra due parti che convocano una dopo l’altra tutte le sue abilità coloristiche e tutte le sue facoltà oratorie. Ne esce quasi l’assoluto: la musica e la parola rimangono sempre l’una nell'altra benché indaghino nuove vie espositive a ogni nota o grafema. L’attrice s’immedesima in un personaggio che, a sua volta, recita sé stesso con compiaciuta calligrafia: il gesto pseudobarocco suggerito da Wilson invade capricciosamente lo spazio circostante e diviene in un sol tempo gioco della Bacelli, maestà del ruolo, delirio d’onnipotenza della regina in dismissione, citazione di una Bette Davis. Il canto si frange e riunisce come in un caleidoscopio, moltiplicando ogni piega declamatoria o espressiva, veritiera o ironica, con un gioco dinamico, una punta di timbro e un arcobaleno di colori che non danno tregua alla mente dello spettatore. Chi sarà mai l’autore dell’Incoronazione di Poppea? Monteverdi o un genio in ogni caso, se a farsi avvocato è una tale Ottavia.