di Roberta Pedrotti
Salutiamo con piacere il ritorno - riveduto, corretto e in via di sviluppo e perfezionamento - della Scuola dell'Opera del Comunale di Bologna in una veste completamente rinnovata. Tuttavia bisogna sempre fare attenzione affinché queste occasioni di visibilità, crescita e confronto non creino illusioni: solo per alcuni si potrà aprire la strada di una carriera professionale e solo a prezzo di uno studio rigorosissimo.
BOLOGNA, 18 febbraio 2015 - Il debutto sulla scena – e su una scena blasonata come può esser quella del Comunale di Bologna – è una tappa fondamentale nella carriera di un cantante. Non segna soltanto l'inizio di un cammino professionale, che saprà indubbiamente recare con sé tutti i buoni frutti dell'esperienza e del contatto continuo con colleghi, registi e concertatori, ma sancisce anche la validità del percorso formativo che a quel debutto ha portato e che ha permesso al cantante di acquisire la preparazione necessaria.
È, pertanto, una grande responsabilità quella del Teatro che allestisca uno spettacolo con giovani alle prime armi, sia per il valore che questa esperienza assume nel bagaglio artistico e professionale dell'interprete, sia per l'avallo che viene dato alle sue ambizioni e alle sue possibilità concrete. Senza dubbio non possiamo che guardare con favore alla rinascita, dall'esperimento iniziale di qualche anno fa, della Scuola dell'Opera di Bologna, un progetto in divenire su basi più concrete, focalizzato su produzioni ben caratterizzate: parallele alla stagione lirica “maggiore”, fuori abbonamento e con biglietti veramente accessibili (dai 15 ai 5 euro). Tuttavia, le riserve pratiche sugli esiti non possono essere subordinate all'entusiasmo ideale per un progetto che offra la possibilità di preparare approfonditamente un debutto in seno a una Fondazione lirica storica, con il sostegno e il contributo di tutte le professionalità in forza all'istituzione. Anzi, come già, giustamente, si è fatto tesoro degli errori del passato anche un inizio un po' in sordina, se preludio di una continua crescita, può anche essere preferibile a effimeri fuochi d'artificio.
Tutto purché i ragazzi che abbiamo visto esibirsi in questo Don Pasquale (opera tutt'altro che facile) siano ben coscienti dei loro limiti e dei difetti su cui dovranno lavorare a fondo se vorranno, al di là di questo episodio, fare del canto lirico la loro professione.
Una riflessione si impone nel caso, per esempio, di Raffaele Pisani nel ruolo eponimo, acerbo per tecnica e strumento al punto da sembrar prendere fin troppo alla lettera l'antica definizione di buffo parlante, giacché più che a un giovane basso baritono pare di trovarsi di fronte a un attore che accenni a intonare qualche frase senza che se ne riesca a definire con chiarezza il registro vocale.
La voce non mancherebbe a Ksenia Titovcenko, Norina, ma è messa a rischio seriamente da una gestione poco accorta. Vogliamo sperare che l'emozione del debutto abbia pregiudicato il controllo dell'emissione, ma egualmente non possiamo non consigliarle caldamente di rivedere quegli acuti spinti e aperti, sul filo del rasoio sempre di poco al di qua o al di là del grido. Ad essi corrisponde quello che pare anche un irrigidimento muscolare che altera il corretto appoggio sul fiato e si concretizza in un vibrato così insistente da non distinguersi da eventuali idee di trilli e fioriture. Il giovane soprano russo ha uno strumento potenzialmente interessante e meriterebbe davvero uno studio serio e approfondito che risolvesse questi ostacoli a una sana e appagante carriera.
Una riflessione radicale s'imporrebbe anche al tenore Boyd Owen (già Peter Quint lo scorso anno al Comunale - leggi la recensione), non soltanto per l'incostanza nella posizione del suono, ma proprio per la coerenza dell'organizzazione vocale. Di tenori eterodossi sono pieni i teatri e la storia, né sarà lui il primo o l'ultimo a rifugiarsi nel naso per risolvere la serenata di Ernesto, ma dev'esserci almeno – per citare Shakespeare – del metodo nella follia. E la tecnica di Owen, a quanto abbiamo sentito, attende ancora la sicurezza del metodo come dell'azione scenica.
Più spavaldo, viceversa, il baritono Michele Patti nei panni di Malatesta: tale spavalderia e la ricerca di un suono rotondo non riescono però a mascherare una tecnica non abbastanza approfondita, una gestione del fiato non ben consolidata, qualche impaccio musicale, un'acerbità di fondo. Anche nel suo caso, ancora molto è il lavoro da fare prima che si possa dire pronto a intraprendere seriamente il cammino professionale; ci auguriamo davvero che per tutti questi ragazzi l'esperienza sul palcoscenico sia stata un confronto costruttivo per comprendere dove ancora devono lavorare e non l'avallo di una preparazione ancora insufficiente all'agone musicale.
Citiamo, poi, a latere, il Notaro di Nicolò Donini, per il quale l'esiguità della parte permette di dire ben poco, se non di lodare la spigliatissima teatralità e di ricordare come in questo allestimento, al suo debutto felsineo nel 2004, lo stesso ruolo fu ricoperto dal compianto Gianluca Ricci, stimato comprimario (nel senso più nobile del termine) bolognese, scomparso prematuramente nel 2007 a soli quarantacinque anni.
Gianni Marras, una di quelle figure di insostituibili registi stabili e direttori di scena preziosissime nei nostri teatri, creò in realtà questo coloratissimo ed economicissimo allestimento ispirato alla commedia all'italiana e al mondo del fumetto già a Spoleto nel 2002, ma dalle recite di due anni dopo all'ombra delle Due Torri esso rimase nel patrimonio del Comunale, di cui Marras è collaboratore stabile, senza tuttavia essere più ripreso fino ad ora, a dieci anni e un paio di mesi dalla prima bolognese. Sicuramente il lavoro con i cantanti è stato accuratissimo, lo si intende anche là dove il talento o l'impaccio personali non sono ancora stati rifiniti, esaltati o arginati dall'esperienza. L'idea è giusta e potenzialmente gustosa, perché la cornice scenica si rivela nella sua originaria concezione di divertissement pensato appositamente per un cast giovanissimo.
Giuseppe La Malfa sale per la prima volta sul podio nella sala del Bibiena dopo aver diretto alcuni concerti sempre organizzati dal Comunale nelle chiese cittadine. Si apprezza senza dubbio la cura al dettaglio strumentale e la compattezza dell'orchestra, nonché la precisione ricercata con minuziosa caparbietà nell'arco di tutta la recita. Ci sarebbe però piaciuto ascoltare una più ampia tavolozza di colori, un gioco dinamico più sfumato, soprattutto in rapporto alla gestione dei tempi complessivamente buona e a quello stesso stesso corpo orchestrale che una dinamica più ampia e movimentata avrebbe certamente meglio valorizzato. Il coro fa del suo meglio, bilanciando i ranghi ridotti e il passare del tempo senza rinforzi e rinnovamenti con la professionalità e l'esperienza che gli sono proprie.
Purtroppo, a discapito degli ottimi prezzi, solo la platea si riempie alla prima (pare, invece, che le vendite stiano andando decisamente molto meglio per le repliche), ma il successo finale è caldissimo e coinvolge sia il bravissimo mimo Davide Palumbo, sia lo scenografo e costumista Davide Amadei.
foto Rocco Casaluci