di Joseph Calanca
Termina a Lucca il viaggio del capolavoro di Mozart nel nuovo allestimento firmato da Rosetta Cucchi. Se le scelte registiche risultano banali e di dubbio gusto, la parte musicale dello spettacolo è lodevolmente guidata dalle voci di Alessandro Luongo e di Yolanda Auyanet
LUCCA, 28 febbraio 2015 - Esistono essenzialmente due strade che un regista può percorrere nell’accostarsi a quei titoli dalla statura monumentale, colonne portanti di tutta una civiltà. La prima nasce dalla convinzione incrollabile di una perfezione assoluta e universale del testo e si tramuta spesso in un timore reverenziale allergico a ogni possibile libertà interpretativa. L’altra strada passa invece attraverso un approccio critico, senza paura di sfidare il bellissimo mostro e la sua storia esecutiva al fine di porre in luce tutta la modernità del capolavoro. Quindi lode a Rosetta Cucchi che intraprende questo percorso per il nuovo allestimento coprodotto da Ópera Tenerife, Fondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione Teatri di Piacenza e Teatro del Giglio di Lucca. Va comunque sottolineato, en passant, un eccessivo dispendio di energie, trattandosi della terza produzione del capolavoro di Mozart andata in scena negli ultimi sei mesi a pochi chilometri di distanza, dopo quello di Enrico Castiglione per il Teatro Verdi di Pisa e il discusso Graham Vick nato per il Circuito Lombardo e i teatri di Reggio Emilia, Jesi, Fermo e Bolzano.
Torniamo allo spettacolo lucchese. Come già nelle precedenti Nozze di Figaro create dalla regista pesarese, la Spagna di età moderna lascia il posto agli Stati Uniti, scelti anche perché ultima patria di Lorenzo Da Ponte. Ma non sono più gli spensierati anni Cinquanta e Sessanta del Novecento delle commedie di Billy Wilder, bensì i controversi anni ’80 segnati dalle cicatrici della guerra del Vietnam e sui cui incombe la minacciosa ombra dell’AIDS. Don Giovanni diventa allora l’attrazione principale di uno dei tanti locali glamour newyorkesi, secondo Rosetta Cucchi un po’ Freddie Mercury, un po’ Jim Morrison, in una vicenda che prende avvio già durante l’ouverture: Donna Anna di ritorno dallo shopping consuma, estremamente consenziente, l’amplesso con il libertino sul taxi che dovrebbe riportarla a casa mentre Leporello documenta il tutto scattando infinite fotografie. Don Giovanni non è neppure mascherato, né cerca di celare il proprio volto: come giustificare quindi uno dei nodi del dramma nonché la scena capitale che librettista e compositore donano alla prima donna nel momento in cui finalmente riconosce la voce del suo assalitore?
Lo spettacolo poi prosegue, e male, con chiare influenze dai lavori di registi ben più ispirati come Calixto Bieto (il già detto amplesso sull’automobile) e Claus Guth (l’incurabile piaga al ventre di Don Giovanni) e con fragorose cadute di gusto: basti come esempio il finale primo, quando il protagonista sfugge alle pistole che Anna, Elvira e Ottavio gli puntano addosso grazie al moschettone prontamente sceso dal soffitto e destinato a trasformarlo in una novella, ridicola, Assunta. Non aiutano inoltre a riscattare questo problematico spettacolo le parche scene di Andrea De Michele, i modesti costumi di Claudia Pernigotti e luci di Andrea Ricci, spesso destinate a illuminare controscene francamente inutili.
Il cast, con la sola eccezione del protagonista, sembra muoversi sul palcoscenico senza precise indicazione registiche, nonostante i numerosi stimoli offerti dal libretto. Alessandro Luongo, tratteggia un Don Giovanni dalla bella voce baritonale, spavaldo come raramente capita di sentire nella temibile “Fin ch’han dal vino” e malinconico e carnale nella serenata, qui svilita a base di un sciocco balletto della cameriera di Donna Elvira. Spiace, invece, che al suo fianco un professionista come Roberto De Candia, probabilmente a causa di un’indisposizione comunque non annunciata, sia un Leporello impreciso e soprattutto poco interessato a costruire il perno comico della vicenda. Un po’ di superficialità interpretativa è da segnalare anche in Raffaella Lupinacci (Donna Elvira), credo imputabile alla giovane età del mezzosoprano calabrese e allo scarno lavoro registico, per lei sintetizzabile in soli due gesti: assunzione di pillole per i momenti di sconforto e mano nei capelli per quelli più drammatici. Una leggera spianatura delle agilità si fa perdonare dal piacere di sentire una volta tanto non urlati i la della sortita “Ah chi mi dice mai”. È raro incontrare uno strumento suntuoso e robusto come quello di Yolanda Auyanet nella parte di Donna Anna; l’afflato drammatico è aumentato dal colore stesso della voce e le agilità dell’impervio ruolo, a parte qualche stanchezza avvertibile nei picchettati dell’impietoso rondò, vengono domate con estrema sicurezza. A causa di qualche asperità e di una certa inerzia espressiva, Blagoj Nacoski (Don Ottavio) non risulta totalmente soddisfacente; Antonio di Matteo è invece un giovane Commendatore tonante ma dall’avvertibile perdita di smalto negli acuti. I ruoli di Zerlina e Masetto sono affidati ad Ayse Sener e Felipe Correia Oliveira, scelti tra gli studenti del CUBEC, l’Accademia modenese di cui Mirella Freni è docente principale. Se il soprano turco si fa notare per voce proiettatissima e canto tutto sul fiato degno della sua prodigiosa maestra, il baritono brasiliano più per gli errori di pronuncia che per la perfettibile tecnica canora.
Non può convincere infine la prova di Aldo Sisillo, alla guida dell’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna, non tanto per intenzioni interpretative quando per i diffusi ed evidenti scollamenti tra buca e palcoscenico.