di Giovanni Chiodi
Delude profondamente la nuova produzione firmata da un artista come Peter Stein, che non rende onore alla sua fama e al suo talento. Nulla di memorabile nemmeno nella compagnia di canto, nonostante l'esperienza di Zubin Mehta, la garanzia di professionalità di Fabio Sartori e le qualità di Anita Rachvelishvili, l'interprete più interessante e completa del cast.
Milano, 18 febbraio 2015 - Strano rapporto, quello che si è creato tra la Scala e Aida. Dopo la produzione di Zeffirelli del 2006, tra tutte la meno memorabile, e la ripresa di quella del 1963, rimessa in cartellone nel 2012 e nel 2013, in una copia poco conforme all’originale e ormai fuori tempo, riappare ora in un nuovo allestimento, firmato da Peter Stein. La delusione maggiore viene proprio da lui.
Un’Aida che rinuncia programmaticamente alla regia, giustificando il vuoto di idee (con tutto il rispetto per un mostro sacro del teatro come Peter Stein) con la ricetta della tradizione conservata sotto nuove forme. Appunto: della tradizione si è visto molto (troppo), a parte il vacuo e il vano del caravanserraglio usuale. Giusto quindi fare a meno di elefanti, cavalli, comparse, flabelli, stendardi. Ma per il resto, per costruire i personaggi ci vuole ben altro. Va bene ridurre tutto al triangolo amoroso: però senza le fondamenta solide di una vera recitazione non si arriva da nessuna parte. Perciò qui assistiamo ai soliti gesti e alle solite situazioni, che diventano un comodo paravento di cose già viste. Aida tende le mani al cielo, Amneris a un certo punto le dà un calcio, i sacerdoti salgono e scendono le scale, il coro agita le mani durante il trionfo, privato delle danze (scritte da Verdi e che dovrebbero costituire una sfida per il regista, più che un impaccio), le trombe sono sul palco con tanto di leggio, e la scena del tempio, altro banco di prova, è il solito trionfo del kitsch (solo più fino) con tanto di danzatrici svolazzanti come libellule, incensi fumanti e sfere d'oro che scendono dal cielo. Il resto è affidato a uno spettacolo di geometrie e di luci che galleggia nel vuoto. Quanto ai personaggi, Aida e Radamès scompaiono interamente, e lo stesso accade agli altri. Sarebbe un’eccezione Amneris: ma il contesto non le consente sviluppi originali più di tanto.
La parte musicale poggia su basi sicure, perché a dirigere è Zubin Mehta, che la partitura la conosce perfettamente e la dirige bene, mentre il coro della Scala canta Verdi con l’autorità che gli viene da una connaturata simbiosi. Non è stata però un lettura musicale paradigmatica. Il maestro ha scelto tempi in genere lenti e indugianti, anche nei momenti in cui sarebbe stato necessario uno scatto, un’accensione, una dinamica più vibrante e articolata. Ha evitato la pesantezza, ma non ci ha dato una narrazione travolgente. Anche la compagnia di canto sembra essersi data appuntamento per una serata di mera rappresentanza. Fabio Sartori è una garanzia: non ha colpi d’ala e non fa prodezze, ma la tecnica è ferma, l’emissione corretta, ha buona tenuta anche nei piani.
Kristin Lewis, viceversa, è una Aida tutto meno che carismatica: siamo tutt’al più alle buone maniere e alla consumata professionalità. Ma non ha né voce né timbro né fraseggio di una Aida non diciamo grande, ma di spessore. E poi abbiamo errori capitali come Salminen, che compie uno sforzo insormontabile per farsi sentire ed emette poi suoni brutti o stonati o in un gergo tutto suo: l’ombra del grande basso che abbiamo ammirato tantissime volte. Molto interessante l’Amneris di Anita Rachvelishvili: la voce è ragguardevole, sale con facilità agli acuti e l’interprete punta a raffigurare più la donna, con la sua femminilità ferita e sofferta, che la sovrana proterva. Più convenzionale l’Amonasro di George Gagnidze, malgrado il materiale. In compenso, Carlo Colombara ha dato ottimo risalto alla figura del Re.