di Francesco Lora
Il capolavoro di Gluck entra al Teatro La Fenice in un nuovo allestimento di Pizzi e con l’equilibrata direzione di Tourniaire. Nella parte protagonistica, debutta e convince la Remigio, capofila di una valida compagnia di canto.
VENEZIA, 28 marzo 2015 – Nel 2014 ricorrevano i trecento anni dalla nascita di Christoph Willibald Gluck; ma vuoi l’ombra possente di Richard Strauss, col suo centocinquantesimo, vuoi la smemoratezza dei teatri lirici, per lui la festa è stata magra e ai limiti della casualità. Curiosamente, l’anno presente sembra anche un atto di riparazione gluckiano, con fuochi d’artificio nemmeno sognati in quello passato. Ecco, per esempio, l’Iphigénie en Tauride andata in scena a Ginevra in gennaio-febbraio, col debutto carismatico di Anna Caterina Antonacci [leggi la recensione], nonché quella che andrà in scena a Salisburgo tra il festival di Pentecoste e quello estivo, col debutto pantagruelico di Cecilia Bartoli. Ed ecco il nuovo allestimento dell’Alceste, varato al Teatro La Fenice di Venezia per cinque recite dal 20 al 28 marzo. Un nuovo allestimento con la firma di Pier Luigi Pizzi, lussuosa in sé e, come di consueto, una e trina per regìa, scene e costumi.
Pizzi conosce a fondo questo capolavoro, da lui portato in scena quattro volte sull’arco di quasi mezzo secolo. A Venezia s’è cimentato con la versione originale di Vienna 1767, differente dal rifacimento francese di Parigi 1776 non solo nella lingua, ma anche nel ritmo più austero, nell’azione più scarna e nella coreografia non ancora espressa in veri e propri divertissements. Ne è risultato uno spettacolo ove il sommo maestro della meraviglia neobarocca semplifica e prosciuga, ossia di riduce messaggio e gesto e colpo d’occhio all’essenziale: architetture di classica linearità, tuniche bianchissime come le predette, recitazione di naturalezza borghese anziché tragicamente amplificata. Tutto parla d’eleganza e perde forza proprio all’aumentare degli elementi: l’albero carico di teschi, presso il quale Alceste è raggiunta da divinità infernali ammantate come i dissennatori di Harry Potter, o il lettone matrimoniale intorno al quale orbita oleograficamente una famiglia da réclame, sono immagini ove la metafora è assai prossima al letterale, e ove l’ispirazione artistica non tenta nemmeno i trionfi ornamentativi dell’Armide milanese del 1996 (Pizzi per Gluck anche in questo caso, vertice di una carriera e mai dimenticato).
Con qualche taglio alla maestosa partitura (peccato), il concertatore Guillaume Tourniaire si pone in equilibrio tra la tradizione esecutiva postromantica e la prassi storicamente informata: nell’orchestra egli non dispone di strumenti originali, ma abolisce gli inopportuni turgori ereditati da Wagner e sostiene il canto con la dovuta dedizione. Il coro, assiduamente impegnato lungo tutta l’opera, contribuisce alla bontà della lettura con una solidità tecnica qui più che mai richiamata e manifesta. Eccellenti sono la scelta e la prova di Carmela Remigio nel ruolo protagonistico: tra i soprani italiani oggi in attività, ella più armonicamente di tutti concilia la dote naturale, la lunga esperienza, la consapevolezza tecnica e l’integrità dei mezzi; ne deriva un’Alceste immacolata nel canto, dall’omogeneità timbrica al dominio dei registri e alla finezza del legato, e onesta con le proprie inclinazioni nel preferire la via dell’interpretazione femminile, realistica ed espressiva a quella tragica, forbita e coturnata.
L’esperimento di assegnare a Marlin Miller la parte di Admeto riesce invece meno felice: il tenore è tra i più intelligenti della sua generazione, con prove interpretative maiuscole soprattutto in Britten e Stravinskij; ma il personaggio gluckiano richiederebbe stilizzazione estrema del porgere e controllo di una tessitura scomoda, laddove il nostro fatica assai nel canto (incluso l’impoverimento timbrico) e trascina così l’espressione a un iperrealismo radente il grido e il rantolo. Coraggiosa ma problematica, per via dei difetti di proiezione e intonazione, l’idea di ricorrere a voci bianche per Eumelo e Aspasia. Molto valida tutta la corona delle seconde parti, ove spicca l’Evandro di Giorgio Misseri (un tenore ben più accattivante del deuteragonista stesso) e si distinguono, come dev’essere, l’Ismene di Zuzana Marková e il Gran Sacerdote d’Apollo di Vincenzo Nizzardo.