di Francesco Lora
L’opera di Richard Strauss torna all’Opera di Stato di Vienna in un allestimento nuovo e di scarso apporto teatrale. Benvenuto è così il sopravvento della parte musicale, con la direzione di Schneider e le solide voci di Watson, Barkmin, Larsson e Struckmann.
VIENNA, 16/04/2015 – Nel 2014, centocinquantesimo anno dalla nascita di Richard Strauss, l’Opera di Stato di Vienna aveva riservato al compositore ottimi concertatori e ottimi cantanti, ma non gli aveva dedicato alcun nuovo allestimento: il fatto è curioso, se si considera che nessun’altra istituzione di spettacolo al mondo, insieme con il Semperoper di Dresda e il Festival di Salisburgo, vanta una più ricca tradizione interpretativa straussiana. Nell’anno corrente, quando terminata la festa il santo finisce gabbato, i conti sono per contro tornati in pari con un nuovo allestimento dell’Elektra. Sei recite dal 29 marzo al 16 aprile, e locandina con colpi di scena dai mesi di attesa fino all’ultima replica. Concertatore doveva essere Franz Welser-Möst, che abbandonata la direzione musicale del teatro ha però anche annullato tutti i suoi impegni operistici, questo compreso. Gli è subentrato il rampante Mikko Franck, che all’ultima recita ha tuttavia ceduto la bacchetta al veterano Peter Schneider. E anche nel comparto vocale, l’inesorabile partitura ha via via decimato le forze e restituito, a quella stessa ultima recita, una compagnia mutata in metà delle parti principali: Linda Watson come Elektra, in luogo di Nina Stemme, e Gun-Brit Barkmin come Chrysothemis, in luogo di Anne Schwanewilms.
Poca cosa è il nuovo allestimento, con regìa di Uwe Eric Laufenberg, scene di Rolf Glittenberg, costumi di Marianne Glittenberg e luci di Andreas Grüter. Ciò che l’occhio vede ha debole pretesa di novità, a partire dall’inevitabile trasposizione dell’azione ai nostri giorni, indicata dagli abiti e da ascensori in un nudo spazio altrimenti senza tempo. Manca però l’idea teatrale forte, la quale si adagia sulla lettera del libretto ma osserva poi sommariamente le didascalie. Poche le divergenze e le innovazioni: Elektra indossa un completo da uomo per poi svestirsene all’arrivo di Orest, il vero uomo di casa; gli stessi due sono presentati come maturi cinquanta-sessantenni, mentre Klytämnestra appare decrepita, in sedia a rotelle, tiranneggiata dalle serve che l’accompagnano; il sopravvento fisico della figlia sulla madre, dunque, potrebbe già compiersi sin dalla prima scena, se non fosse che la sorella intende cedere ritualmente al fratello la vendetta del padre e la missione del matricidio. Spunti sparsi, tuttavia, non concorrono a un pensiero organico e recepibile.
Si ammira invece la Watson, subentrata all’ultimo momento: anziché farsi prendere dall’ansia dell’improvviso debutto viennese in una parte temibile, ella declama la sortita di Elektra imponendo una dilatazione dei tempi e articolando con inconsueta dovizia di particolari espressivi frase verbale e musicale; recita con animosità, scende al registro grave con sostanza e scaglia sicura acuti generosi; evoca la feroce ironia nei dialoghi con Klytämnestra e Aegisth come sempre piacerebbe ascoltare, cioè non caricando grottescamente l’espressione, ma rendendo all’improvviso lusinghiero e adamantino il canto della belva feroce, quasi stesse beffardamente travestendo sé stessa da Feldmarschallin Fürstin Werdenberg. Bel contrasto si ha così con la Barkmin, la quale non teme una nota della parte di Chrysothemis, ma anche sa sempre conservare il personaggio alla sua adolescenza, al suo lirismo, alla sua illusione, con emissione levigata e freschezza di timbro.
Una meraviglia è a sua volta – qui la migliore in campo – Anna Larsson come Klytämnestra: il suo ombreggiato velluto contraltile e la pacata forbitezza del fraseggio restituiscono un personaggio di inedita ed enigmatica signorilità, allucinato fantasma a sé stesso, ieri uxoricida senza scrupoli e oggi fossile di una regina impeccabile. Anche Falk Struckmann è un interprete di riferimento: se il passare degli anni ha decurtato il suo registro acuto e ha tolto Wotan dalle sue corde, in lui rimane ancora uno tra i massimi baritoni-bassi di ceppo culturale tedesco, vigoroso nell’accento e sostanzioso nel timbro, capace insomma di consegnare alle scene l’Orest forse il più genuino, maturo e saldo dei nostri giorni. Comprimariato con alte referenze, cospicuo di doti e puntigli da caratterista: tra gli altri, Norbert Ernst come Aegisth, Wolfgang Bankl come Mentore d’Orest, Simina Ivan come Confidente, Aura Twarowska come Portatrice dello strascico, Thomas Ebenstein e Marcus Pelz come Servo giovane e anziano rispettivamente.
Quanto a Schneider, piace vederlo ereditare la concertazione di Franck ma suscitare d’un colpo la propria via interpretativa; piace vederlo festeggiato da tutti i professori d’orchestra fino all’ultima chiamata al proscenio; piace vederlo raggiungere il podio a passi piccoli e stanchi, ma maneggiare poi con gattesca sornioneria e furia leonina questa partitura che non concede riposo fino all’approssimarsi della seconda ora. In effetti, è una lettura che si scalda via via: nelle prime scene, dal golfo mistico l’orchestra fa ascoltare la potenza del motore senza preoccuparsi dell’eleganza che una Staatskapelle Dresden saprebbe pure lì infondere; poi il gioco si fa più sottile, in una sempre più complice reciprocità tra podio e leggii, assecondando la buona intenzione di questo o quel cantante, instillando sapide mezzetinte e facendo calare la tela su un postludio di spaventosa tellurica imponenza. Siamo a Vienna: non potrebbe accadere nulla di meno.
foto Wiener Staatsoper / Michael Pöh