di Giuseppe Guggino
Un insolito dittico congeniato al Teatro Massimo di Palermo abbina Le toréador di Adolphe Adam e Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni. Cast scelti con cura, allestimenti di sana tradizione, successo di pubblico conseguente.
Palermo, 18 aprile 2015 - Cosa tenga assieme un innocuo vaudeville degli anni ’40 dell’ottocento all’opera più rappresentativa del verismo in musica è presto detto: le corna, seppur con esiti drammaturgici – prima ancora che musicali – estremamente differenti, beninteso.
La storiellina di Adam è incentrata su un vecchio torero in pensione (basso), convolato a nozze per motivi di interesse con Coraline, un soprano dell’Opéra (da lui costretta al ritiro dalle scene) che continua a trescare con Tracolin, un flautista dell’Opéra (tenore); un biglietto compromettente non firmato da Coraline (seppur di sua mano), recapitato per disguido al torero anziché a Tracolin, grazie ad un’ingegnosa macchinazione di quest’ultimo, è attribuito ad una ballerina e ritenuto indirizzato al basso, così presunto adultero, “a sua insaputa” (come si direbbe in Italia). I coniugi in crisi chiedono l’intervento pacificatore del flautista che, brillantemente, propone di stabilirsi sotto il tetto coniugale come suggello dell’integrità morale (evidentemente destinata a tramutarsi nel suo opposto per gli anni a venire).
La musica – che non avrà grandi pretese ma scorre via leggera, esornativa, tra ripetizioni, couplets e bagatelle varie (talvolta un poco prolisse) – inanella una gran quantità di citazioni motiviche ormai non più tutte riconoscibili al pubblico contemporaneo (da Gréty a Mozart), e richiede grande virtuosismo sia dall’orchestra che dal trio di protagonisti. Ugo Guagliardo nel ruolo eponimo è splendido sia scenicamente che per la precisione con la quale risolve un ruolo vocalmente tutt’altro che semplice. La capricciosa Coraline di Laura Giordano, attrice irresistibile nel continuo cambio d’abiti in 80 minuti di musica, dimostra anche quanto sappia fare cose musicalmente egregie se alle prese con un ruolo perfetto per la sua vocalità; forse è mancato un filo di funambolica spericolatezza nelle innumerevoli scalette discendenti della seconda aria, risultate un poco rallentate, ma il resto le è valso il pieno successo di pubblico. Meno entusiasmante per via di un timbro ingrato Christopher Magiera, ma comunque corretto nella tessitura anfibia fra tenore e baritono di Tracolin.
Molto azzeccata e funzionante la scelta registica di ambientare l’operina nella Palermo dei primi del ‘900, trasformando Coraline in una sorta di Franca Florio (cosa che consente peraltro un lodevole riciclo di attrezzeria e costumi da un balletto di stagioni precedenti), e richiedendo a Francesco Zito il disegno di un interno ben delineato che però lasciasse vedere all’esterno la vita di palcoscenico, con le prove dei ballerini (Elisa Arnone e Giuseppe Bonanno), il viavai di orchestrali, oppure ancora figuranti sempre riccamente abbigliati; altrettanto funzionante è la scelta di far doppiare in scena Tracolin dal bravissimo Antonino Saladino, flautista del Massimo, che nell’opera è impegnato in innumerevoli passi a solo. Viceversa l’Orchestra, seppur sufficientemente precisa, segnala chiaramente come questo tipo di musica, tutta effervescente brio e poca sostanza, non rientri nel proprio DNA.
La resa orchestrale e la mano del maestro Stefano Ranzani si fanno molto più efficaci in Cavalleria rusticana laddove, per converso, la regia tradizionalissima di Marina Bianchi si fa decisamente meno attraente che non nel primo pannello della serata; anche la perizia in genere affidabilissima di Francesco Zito, alle prese con la traduzione in scena di un vecchio bozzetto di Renato Guttuso, si fa meno infallibile: alla scenografia, caratterizzata da edifici sostanzialmente paralleli od ortogonali al piano del boccascena, manca l’effetto prospettico (chi è seduto non già verso il proscenio ma nei posti laterali a metà della sala si perde metà della scena) e l’aver posto la Chiesa di prospetto comporta il dover tenere le porte sempre chiuse durante la messa di Pasqua (cosa poco verista, anzi molto poco verosimile). Anche la gestione delle masse è sempre schematica e poi Turiddu non può tenere per mano Santuzza mentre lei canta “rimani ancora. / Abbandonarmi dunque tu vuoi?”, così come risparmiabile è l’intervento coreutico che invece risultava estremamente calzante ne Le toréador.
La Santuzza di Luciana D’Intino è di assoluto rilievo, magnifica per volume, bellezza e morbidezza della linea di canto, capace di farsi estremamente ferina nei temperamentosi affondi al grave sfoggiati alla bisogna. Altrettanto convincenti le più giovani Valeria Tornatore, un gran bel fior di giaggiolo, e Chiara Fracasso come Mamma Lucia. Il comparto maschile del cast, invece, consiste nel Turiddu di Carlo Ventre, talvolta un poco privo di smalto ma comunque efficiente, e in Alberto Mastromarino, che canta secondo il suo abituale standard. Buona la prova del Coro (specialmente con riferimento alla sezione maschile), istruito da Piero Monti.
Sala gremita, pubblico delle grandi occasioni, seconda carica dello Stato e presenze istituzionali varie, successo.
Il programma di sala propone - tra le altre cose - una bella traduzione del libretto de Le toréador, approntata per l’occasione da Angela Fodale; spiace invece doverla leggere in mancanza del testo a fronte in lingua originale (così come in tutti gli altri programmi di questa stagione), vieppiù perché si tratta di un libretto di non facile reperibilità.