di Francesco Lora
All’Opera di Stato di Vienna, l’allestimento dell’Evgenij Onegin invecchia precocemente per eccesso di astrazione concettuale e visiva. In una lettura musicale di desolante indifferenza spicca tuttavia Charles Castronovo come Lenskij.
VIENNA, 25/04/2015 – Ben vengano gli allestimenti operistici dove l’arte gestuale, scenografica e costumistica è basata più sul sottrarre che sull’aggiungere: spesso da essi viene una lezione di raffinatezza concettuale oltre che visiva, e un invito ad approfondire la drammaturgia del titolo in questione. Ma l’arma è a doppio taglio: l’Evgenij Onegin di Pëtr Il’ič Čajkovskij con regìa di Falk Richter, scene di Katrin Hoffmann e costumi di Martin Kraemer, patrimonio dell’Opera di Stato di Vienna dal 2009 e ripreso quasi ogni anno fino a oggi, ha l’indubbio vantaggio dell’agile trasporto e montaggio in un teatro che programma spettacoli a decine; ma consiste in uno spazio oscuro e vuoto, con pochi, glaciali, stilizzati elementi praticabili, sul fondo del quale cade fitta la neve; i personaggi indossano abiti neutri piuttosto che costumi caratterizzanti; le differenze spazio-temporali sono annichilite, abolendo ciò che la musica stessa illustra con puntiglio: la dimensione campagnola nelle sue conviventi declinazioni borghese e contadina, la giovinezza campestre e la maturità metropolitana, il pomposissimo passaggio ai saloni nobiliari di San Pietroburgo. L’idea teatrale – se mai vi fu – sembra essersi persa con gli avvicendamenti delle compagnie di canto, e consegna oggi uno spettacolo debolmente appoggiato su attori poco autonomi.
Nelle tre recite del 25 aprile - 1° maggio, sul podio è tornato Louis Langrée, già direttore di quattro recite nel 2011. E anch’egli ha partecipato al declino di uno spettacolo: sotto la sua bacchetta, la fiammeggiante orchestra dell’Opera di Stato indugia senza divenire pensosa, si irrigidisce senza divenire altera, articola le singole note ma non le collega in frasi, tenta l’esplosione in postludi che suonano tuttavia stanchi, fiacchi ed esangui, decapitando la trascinante retorica strumentale čajkovskijana. L’orchestra giusta con il direttore sbagliato.
Spaesamento, demotivazione e casualità deprimono a loro volta una compagnia di canto che rare volte, in uno spettacolo operistico, si sarebbe potuto trovare meno coinvolgente. Se il volume vocale di Maija Kovalevska appare modesto, se il suo timbro appare incolore, se la sua estensione appare stentata, ciò non è tanto per limiti di natura vocale, quanto per il fatto che la sua Tat’jana non coltiva e non attira interesse espressivo, richiamando così la vivisettrice attenzione del melomane su un canto di mero disimpegno e senza slancio. Accanto a lei, Peter Mattei domina invece la tessitura di Onegin con magnifico agio e duttilità, ma esibisce una pronuncia russa improbabile e condivide la desolante estraneità attoriale, fino a un duetto conclusivo radente l’indifferenza dentro e davanti al palcoscenico. V’è di che aggrottare le sopracciglia, se si considera che sia la Kovalevska sia Mattei si erano già esibiti quattro anni or sono, e per giunta insieme, in questo stesso allestimento viennese.
Inappuntabile correttezza di lettura musicale, ma sempre la medesima freddezza interpretativa, si trova nella Larina di Suzanne Hendrix e nell’Olga di Elena Maximova. Più umanamente frastagliata suona invece la Filipp’evna di Aura Twarowska, e vanitosamente efficace risulta il Triquet di Norbert Ernst, mentre Jongmin Park intasca facilmente i più scroscianti applausi della serata intonando l’aria del Principe Gremin. Il migliore in campo è nondimeno Charles Castronovo, Lenskij fatto inconfondibile non già da un timbro piuttosto comune, bensì da un fraseggio dotto, attento, pregnante: da esso procede una recitazione ricca di contrasti espressivi, dall’introversione caparbia eppure tenera allo sfogo rabbioso eppure non sopra le righe; un vero balsamo per una serie di recite altrimenti nata sotto cattiva stella.