di Roberta Pedrotti
L'Orfeo di Monteverdi approda per la prima volta sulla scena del Comunale Claudio Abbado di Ferrara. Ottima accoglienza per l'unica recita, nella quale ha brillato il protagonista Mauro Borgioni.
FERRARA, 8 maggio 2015 - Di recitar cantando, di rappresentazioni teatrali in musica, di spettacolari allestimenti mitologici o edificanti racconti sacri e morali si sentiva ben parlare già prima di Monteverdi, e il titolo di primo testo definibile come melodramma è a ben diritto conteso da opere d'altri autori, come Peri e Caccini, in un fermento culturale in cui la smania di classificazione sarebbe sforzo sovrumano e, infine, poco fruttuoso.
L'Orfeo di Monteverdi ha però il primato della perfezione, è indiscutibilmente il primo capolavoro, una sorta di perfetto manuale della retorica, delle forme, degli equilibri, delle potenzialità del nuovo genere destinato a secolari fortune. A ogni ascolto, anche di fronte a qualche libertà testuale ed esecutiva, cresce la meraviglia dell'articolazione della frase, della tornitura della parola, dell'invenzione melodica sempre pertinente, sia nel canto strofico sia nell'intonazione rapsodica dei versi, nel racconto, nella perorazione, nell'esposizione. La semplicità apparente racchiude, nell'interprete che la sappia leggere, una tale selva di sottintesi e sottotesti motivi, sensuali perfino, e altamente intellettuali da esigere la più alta preparazione e stimolare senza sosta la mente del pubblico.
Sembra incredibile che in oltre quattro secoli di vita, nato alla corte dei Gonzaga nella vicina Mantova, il capolavoro di Monteverdi non fosse ancora approdato nella musicalissima Ferrara già estense. Eppure siamo qui, ora, nel 2015, ad assistere alla prima rappresentazione dell'Orfeo nel bel teatro cittadino, a due passi dal Castello, dal Duomo e da tutte le delizie che allignano nell'ultima residenza di Lucrezia Borgia.
Rappresentazione in forma semiscenica nella quale, benché l'antica concezione presupponesse macchine teatrali degne di una corte splendidissima, nulla ci manca. Bastano le luci, praticabili articolati su vari livelli, un minimo d'indicazione spaziale per i cantanti, il bianco e il nero dominanti negli abiti e gli effetti cromatici sullo sfondo. Tutto a cura di Marco Bellussi, che solo eccede dalla buona misura della sua mise en éspace con la proiezione di frasi di fonte non chiara (non sembrano proprio una traduzione dalle Metamorfosi di Ovidio) e, soprattutto, di utilità ed effetto decisamente trascurabili.
Ciò che non è trascurabile è la bella prova di Mauro Borgioni come Orfeo. Non solo la tessitura sembra calzargli a pennello – il che, per una parte ibrida fra il baritono e il tenore, non è mai scontato – ma il canto è sempre timbrato e controllato nel colore, senza suoni fissi o sbiancati, bensì più densi o rarefatti, in un'ampia gamma di nuances. Su questa base si può plasmare il testo di Striggio con consapevole intelligenza, senza perdere una sfumatura, senza uscire mai dai confini di un'articolazione naturale e spontanea, chiarissima nella dizione, puntuale nell'espressione. Basti ascoltare come nell'invocazione a Caronte “Possente spirto”ogni trillo, ogni abbellimento, ogni fioritura non abbia carattere meccanico o esornativo, ma sia inteso come sospiro, fremito d'emozione, tremore fisico di fronte al dio infero, involo al pensiero dell'amata, abbandono, retorico rafforzamento della perorazione. A ciò si aggiunge una presenza scenica che per statura e imponenza lo vede svettare sul cast, e il quadro del protagonismo indiscusso di Borgioni è completo.
Sostanzialmente equilibrato il resto del cast, per lo più composto da artisti in consuetudine pressoché quotidiana con la musica del XVII secolo. Compare per prima Sonia Tedla Chebreab, stilisticamente impeccabile come Musica; Euridice è la fresca Alice Rossi, la Messaggiera l'accorata Luciana Mancini, la Ninfa Sheila Rech, mentre nel doppio ruolo della Speranza e di Proserpina troviamo il nome più noto di Marina De Liso: già evidentemente proiettata verso il repertorio più tardo cui si sta dedicando ultimamente, porta in dote soprattutto l'esperienza e la confidenza originarie con il Seicento. Fra gli uomini citiamo soprattutto il promettente Matteo Mezzaro, inizialmente previsto per il solo ruolo del Pastore e infine destinatario anche degli interventi di Apollo. Comprensibile, quindi, che affronti questi ultimi spartito alla mano, mentre, francamente, è un limite per Abramo Rosalen (cantante non privo di meriti e già nella locandina stampata a inizio stagione) affrontare le parti di Caronte e Plutone senza perder di vista il testo, tanto più che se le frasi di Apollo sigillano l'epilogo con composta solennità, il nocchiero stigio e il sovrano degli inferi, l'uno nella sua funzione arcigna e terrifica l'altro nella sua sovrana dignità, richiederebbero una scioltezza d'espressione e una compenetrazione impensabili senza aver metabolizzato e memorizzato i versi parola per parola, nota per nota.
Gli altri uomini erano Andrea Arrivabene, Paolo Bassi e Claudio Zinutti (Pastori) e Danilo Zeni (Eco).
Il coro è quello dell'Accademia dello Spirito Santo diretto da Francesco Pinamonti.
Con il concertatore Roberto Zarpellon, l'Orchestra da Camera Lorenzo Da Ponte è posta là dove abitualmente s'apre la buca, ma al livello della platea, alla maniera ancora in uso prima delle esigenze teatrali di cui Wagner si fece alfiere in Europa e Toscanini in Italia, posizione peraltro favorevole agli equilibri musicali, e di sonorità e di coordinamento, soprattutto quando si tratti di strumenti antichi. Certo, a maggior ragione si nota che il suono non è sempre netto come si potrebbe desiderare, ma nel complesso l'esecuzione sa far apprezzare la sua verace immediatezza, la ricerca di una retorica musicale che eviti suoni esangui e spigolosi. Non avremo, forse, una plasticità di luci e colori degna del miglior Caravaggio, ma nemmeno vogliamo disprezzare i risultati di molti fra i suoi epigoni e coevi. Perlomeno l'approccio si intende amorosamente partecipato e non anestetizzato da timori reverenziali e cure calligrafiche.
Vivissimo il successo finale. Il primo capolavoro non invecchia mai.