di Francesco Lora
Plácido Domingo è Nabucco per una sola recita all’Opera di Stato di Vienna. Al declino del vecchio leone corrispondono lo strafare di Maria Guleghina e la lezione di Michele Pertusi. Orchestra e coro diretti con solido mestiere e concetto elegante da Jesús López-Cobos.
VIENNA, 18 maggio 2015 – Che lo si creda o no, il Nabucco di Verdi è arrivato all’Opera di Stato di Vienna solo nel 2001, dopo un secolo e mezzo d’attesa, salvo poi fissarsi in repertorio con oltre settanta recite. L’allestimento in uso ha regìa di Günter Krämer, scene di Manfred Voss e Petra Buchholz, e costumi di Falk Bauer. La didascalia vi è rispettata malgrado la trasposizione dall’antichità al secolo XX, suggerita dagli abiti e dal gesto più che dalle proiezioni simboliche sul fondo spoglio. L’unica libertà consiste nell’antefatto mimato durante la Sinfonia: nella coppia di bambine impegnate in passi di danza, l’una angelicata e l’altra aggressiva, e in quella di bambini impegnati nei loro giochi, l’uno meticoloso e l’altro estroverso, si riconoscono la Fenena, l’Abigaille, lo Zaccaria e l’Ismaele che verranno; il conflitto di rapporti all’interno della “famiglia” consegna l’opera alla dimensione privata e borghese anziché a quella corale e risorgimentale.
La musica passa sopra qualsivoglia declinazione registica, soprattutto se dal golfo mistico salgono i brillanti scoppi d’ottoni, la nettissima articolazione ritmica, la cantabilità delle prime parti e la sollecitudine agogica, dinamica e timbrica dell’Orchestra dell’Opera di Stato. Nelle quattro recite del 10-22 maggio scorsi, l’esuberanza dei mezzi strumentali è stata disciplinata da Jesús López-Cobos, direttore di solido mestiere, di concetto elegante, appassionato conoscitore del teatro d’opera ottocentesco nonché pioniere di scrupoli filologici. Senza che la fiammeggiante orchestra conceda una sola prova prima di andare in scena, more solito, la bacchetta indica e preserva senza fatica le ascendenze rossiniane e il primato del canto. Non sempre può garantire, invece, l’incolumità delle partitura a fronte di una compagnia di canto sfacciatamente composita negli stili e dalle insufficienze di un protagonista pur carismatico.
Cancellate le prime due recite per indisposizione e la quarta per gravi motivi familiari, Plácido Domingo si è presentato alla terza nella sincerità del suo attuale stato artistico. Il passaggio dal registro di tenore a quello di baritono lo ha affrancato da tessiture ormai proibitive, ma non gli ha procurato timbro più brunito, né la morbidezza di legato e la lunghezza di fiati che Verdi chiede più ai vilains che agli amorosi. La stanchezza si fa sentire anche quando prevenuta: l’emissione rimane affannosa malgrado lo sfoltimento ad hoc di ogni ripetizione o nota pericolosa. Poi, i conti con la memoria: il campionario espressivo e gestuale di Domingo come Nabucco è il medesimo (generico) da lui applicato a Francesco Foscari, al Conte di Luna e a Simon Boccanegra; non bastasse, anche qui il libretto è stato appreso alla svelta, senza assimilazione né tantomeno analisi: le parole inventate lì per lì non si contano e lasciano un ricordo più ilare che ammirato.
Mentre il protagonista intona il cantabile dell’atto IV col capo a terra, per avvicinare astutamente l’orecchio alla buca del suggeritore, Maria Guleghina si proclama regina della festa al pari dell’Abigaille che impersona. La signora è in gran forma, e lo vuol manifestare sia con i sopracuti interpolati in ogni luogo, sia con le disinibite variazioni eseguite nella cabaletta dell’atto II, sia con un registro di petto tanto ostentato da far l’invidia del baritono titolare. I difetti – lo si può intuire – sono nel dove e come ella spalanchi la via all’eccesso interpretativo che bistratta testo e stile, e che mette a repentaglio giusta intonazione e recitazione chiara. Reciproca è invece la situazione tra Carlos Osuna e Monika Bohinec, tenore e mezzosoprano utilité dell’Opera di Stato, qui Ismaele e Fenena, lui sempre più rassegnatamente stilizzato e fermo al margine, lei al contrario sempre più esuberante di mezzi ma ancora inerte in finezza o pregnanza.
La solita lezione di stile proviene da Michele Pertusi come Zaccaria, corso a sostituire Mikhail Kazakov tra una recita e l’altra della Cenerentola di Rossini. Si può vantare smalto più fresco e lucente o torreggiare con più risonanza sull’orchestra viennese; non si potrebbe, per contro, trovare oggi un legato più nobile e continuo (in una parte oltremodo fitta di cantabili), né un timbro tenuto più denso e omogeneo (in una tessitura che pure muta a ogni assolo), né una caratterizzazione del personaggio più orgogliosa e fulminante e nel contempo più paterna e amorevole: ecco le buone maniere del canto ed ecco la ieraticità degli uomini buoni. Compagine corale impegnata al massimo delle possibilità, con una duttilissima esecuzione del più famoso tra i cori d’opera: compagine condannata, tuttavia, al gemellaggio con un’orchestra che in ogni tempo le vanterà al di sopra, nel temperamento e nella tecnica, altro acciaio e altro velluto.