di Francesco Lora
Nuovo ciclo del Ring des Nibelungen all’Opera di Stato di Vienna: la visione edonistica dei Wiener Philharmoniker e quella scientifica di Simon Rattle si fondono, al cospetto di una compagnia di canto ove spiccano Gould, Herlitzius, Konieczny, Schuster, Serafin e Ventris.
VIENNA, 16, 17, 20 e 25 maggio 2015 – L’allestimento del Ring des Nibelungen di Richard Wagner oggi in auge all’Opera di Stato di Vienna è stato assemblato a cavaliere di due stagioni, tra il 2007 e il 2009: regìa di Sven-Eric Bechtolf, scene di Rolf Glittenberg, costumi di Marianne Glittenberg e video di Friedrich Zone, con qualche disomogeneità di soluzioni tra le quattro opere che compongono il ciclo (forse a causa di ripensamenti in itinere senza che si potesse rifare la parte già svolta: la rupe di Brünnhilde, per esempio, dovrebbe essere la medesima nelle ultime tre opere, ma risulta visivamente sempre diversa). Per i nostri giorni, è un allestimento differente dai più: non analizza simboli né ricerca sottotesti, per ribaltare criticamente la lettera del testo wagneriano; né, per questa o altra via, pretende di rimanere agli annali com’è avvenuto per gli storici spettacoli firmati da Patrice Chéreau, Harry Kupfer, Robert Carsen e Kasper Bech Holten.
È invece uno spettacolo fatto su misura per una casa d’opera basata sul repertorio fermo e sulla ripresa costante, con un pubblico bisognoso più di conferme che di scossoni: la didascalia è assecondata con umiltà, con l’orecchio sempre rivolto alla musica e con il primo obiettivo di essere chiari narratori delle vicende. A fare la differenza sono, in tal modo, non tanto i veri o presunti colpi di genio del regista che reinventa, quanto la cura posta nei particolari: un silenzioso tessuto connettivo o una delicata proposta di approfondimento in ciò che il libretto esplicita. Alla memoria rimane, per esempio, Alberich che, nel Rheingold, spinge egli stesso l’anello al dito di Wotan dopo aver scagliato la maledizione; o Brünnhilde che, nella Walküre, poggia le mani sul ventre di Sieglinde dormiente e lì coglie il primo germe vitale di Siegfried; o la medesima che, nel Siegfried, trasforma inconsapevolmente in un velo nuziale il bozzolo che l’ha avvolta; o infine Gutrune che, nella Götterdämmerung, porge il filtro a Siegfried e subito si ritira sul fondo, pentita d’aver compiuto il gesto d’avvio verso la catastrofe.
Prima in titoli sciolti e poi in cicli completi, l’allestimento è passato per le cure musicali di direttori illustri: Franz Welser-Möst, Christian Thielemann, Jeffrey Tate e Adam Fischer. Due nuovi cicli sono ora in corso (16-25 maggio e 30 maggio - 7 giugno), con la direzione parimenti blasonata di Simon Rattle. Tra lui e i professori dell’Orchestra dell’Opera di Stato – gli stessi che in gran parte si riuniscono nei Wiener Philharmoniker – il rapporto è, per paradosso, fatto forte dallo scontro di opposti indirizzi artistici. Lo stile di Rattle è noto, soprattutto alla testa dei Berliner Philharmoniker nonché nella sua lettura del Ring des Nibelungen data di recente ad Aix-en-Provence e a Salisburgo: suono asciutto, contorni chiari, fraseggi netti, porgere astratto, tempi decisi, analisi capillare ma assai più musicale e strutturale che teatrale e narrativa. Queste stesse cose egli torna a chiedere nel golfo mistico viennese, e tutto è a lui accordato con falsa umiltà dalla più sfarzosa orchestra del mondo: a questi professori l’esegesi di Rattle sembra poco più che un album da colorare, un punto di partenza per esibire rotondità, splendore, tradizione e aderenza.
Da questo braccio di ferro esce vittoriosa la componente migliore delle due parti, con un gioco virtuosistico che difficilmente potrebbe trovare l’eguale: gli ottoni trovano la stessa setosità degli archi, mentre questi ultimi attingono a ogni immaginabile risorsa tecnica e retorica per radioso involo o torvo affondo; già in ciò si ascolta, mai disgiunta, l’evocazione di Walhalla e Nibelheim. L’esito è non soltanto tra i più sfolgoranti dal punto di vista sinfonico, ma anche tra i più originali dal punto di vista espressivo: edonistica nel materiale e scientifica nel metodo, questa lettura strumentale circonda il canto con tale impassibile indifferenza da raddoppiare il senso d’ineluttabilità del dramma, di smarrimento ed evasione psicologica, di comune tramite tra il mondo sovrumano degli dèi, quello degli uomini e quello subumano dei nani. Né tale orizzonte pone in difficoltà una compagnia di canto assemblata di rado con elementi altrettanto consci e omogeneamente assortiti: dal Rheingold alla Götterdämmerung e dal capo degli dèi all’ultima valchiria, tutti vantano una preparazione artistica e una dignità vocale d’alto livello.
Dopo la rinuncia per indisposizione di Michael Volle, la parte di Wotan è passata per intero a Tomasz Konieczny, dapprima designato per quella antipodica di Alberich: dal ribaltamento di ruoli escono un canto e un personaggio entrambi giovanili, baldanzosi, sicuri di sé, non raffinati nella linea e nel carattere, ma sani e colmi di vitalità e sostanza. Come Loge, Herbert Lippert rivela una brillantezza musicale e un atletismo scenico affatto inaspettati per chi innanzitutto conosca e onori la sua lunga carriera di concertista. Eccelle la Fricka di Michaela Schuster, che fa aderire con impressionante incisività il canto al testo letterario, sfumando sempre e tuttavia mai perdendo la sferza dell’accento. Stupisce Janina Baechle, mezzosoprano-utilité dell’Opera di Stato, dalla quale non ci si aspettava un’Erda così vellutata e solenne, misteriosa non meno che affettuosa. Richard Paul Fink, a sua volta, è tra tutti colui che meglio conduce l’evoluzione del personaggio da un capo all’altro del Ring des Nibelungen: sa tratteggiare l’abiezione senza banalizzare il canto, e lo si vede trascorrere dall’impulsiva illusione giovanile allo strategico cinismo senile.
Caratterismo di alta scuola è quello di Herwig Pecoraro, il Mime del quale è personaggio già tutto definito, per codardia e petulanza, nel Rheingold prima che nel Siegfried. La coppia dei giganti affianca il sempre macignoso Mikhail Petrenko, come arrogante Fafner, al cammeo del sensibile Peter Rose come inconsueto Fasolt; Petrenko è presente non solo nella prima e nella terza opera, ma anche nella Walküre, dove dà invece luogo a uno Hunding spedito e sprezzante. Nobilmente funzionali Boaz Daniel come Donner (e poi come Gunther), Jason Bridges come Froh e Olga Bezsmertna come Freia, mentre più che mai valido è il trio delle figlie del Reno, ricco di merito individuale e collettivo: Ileana Tonca come Woglinde, Ulrike Helzel come Wellgunde e Juliette Mars come Flosshilde.
Giganteggia la Brünnhilde di Evelyn Herlitzius. Ella approccia la più onerosa parte femminile wagneriana da specialista dell’espressionismo straussiano, elegge un evidente modello nella sublime Gwyneth Jones, non nasconde le aspre caratteristiche vocali di premessa: timbro vetroso e vibrato fantasmatico, registro sopracuto non sempre a prova di Do. Eppure, insieme con la Jayne Casselman del decennio scorso, è ella la più entusiasta e cosciente Brünnhilde del nuovo secolo: butta l’anima nel gesto e nel canto, senza mai pensare al risparmio, e ogni frase verbale o musicale è occasione per oltre infervorare il personaggio. Tale è il talento della fraseggiatrice e dell’attrice, che il gioco dinamico ed espositivo procura alla durezza del timbro e all’impeto dell’emissione una soavità alata, giovanile, pudica, che fa piazza pulita della virago tutta d’un pezzo e procura le pieghe più delicate della femminilità.
Nella Walküre, piace il contrasto della sua Brünnhilde con la Sieglinde di Martina Serafin: quest’ultima suona introversa e scostante nel porgere, svettante nel canto ma anche essenziale e asciutta, disincantata da una vita orrenda e da una fuga inutile, e sembra dare una lezione di vita umana a chi ancora non è stata tolta dalla vita eterna e serena degli dèi. Siegmund è Christopher Ventris, ossia l’interprete che da tre lustri a questa parte ha meglio messo a fuoco il personaggio, bilanciato tra facilità e lirismo di canto, disinvoltura attoriale – ciò che gli assicura il primato su Johan Botha – e amorosa flessibilità d’accento. Come già avvenuto per il trio delle figlie del Reno, notevole è l’ottetto delle valchirie sorelle, dove confluisce il miglior comprimariato stabile dell’Opera di Stato: Ildikó Raimondi, Hyuna Ko, Stephanie Houtzeel, Carole Wilson, Donna Ellen, Monika Bohinec e le citate Helzel e Mars.
Nelle ultime due opere, la Brünnhilde particolare della Herlitzius trova il proprio partner inevitabile nel più assiduo e conscio Siegfried nei nostri giorni: Stephen Gould, insignito in questa stessa occasione dell’ambìto titolo di Kammersänger d’Austria. Lo caratterizzano la fibra necessaria a reggere una parte massacrante, viepiù assecondata dalla tecnica che gli assicura una rara longevità artistica. Anche il personaggio è via via cresciuto, anteponendo l’impulsiva ma misurata simpatia della commedia all’eroismo che tuttavia presupporrebbe squillo di più ampio spettro e meno urgente varietà espressiva: spiccata cordialità si coglie invece, per esempio, nel dialogo con l’Uccellino della briosa Annika Gerhards.
Nella Götterdämmerung occorrono le ultime presentazioni di personaggi e interpreti, con qualche sorprendente colpo di coda. Per esempio, la parte di Hagen è assegnata a Falk Struckmann, già uno tra i massimi interpreti della parte di Wotan, ora abbandonata per fisiologica discesa da un registro baritonale puro a uno più grave. In lui non si trova il timbro nero di altri esecutori, né il terribile antagonismo da altri espresso con la sola torva presenza; si trova invece una vocalità prosciugata e sferzante, un gesto vigoroso e sollecito, un personaggio da rifinire ma originale nell’esporsi in prima linea, quasi a voler sacrilegamente rilevare, nell’ultimo titolo del Ring des Nibelungen, il ruolo sovrano lasciato libero da Wotan.
Come un’anti-Brünnhilde sembra a sua volta porsi la Gutrune di Caroline Wenborne, paffuta a mo’ di certe oleografiche valchirie d’un tempo, e come esse intenta a esibire più un canto generoso che un carattere variegato: la cosa non disdice in questo contesto, ché accanto alla Herlitzius si distingue meglio il profilo morale e lo spessore intellettuale dei due personaggi. Delude, per contro, Anne Sofie von Otter come Waltraute: è benvenuto affidare la scena memorabile a una cantante di rinomata raffinatezza vocale e sollecitudine espressiva; con il passare degli anni, però, la presenza scenica del mezzosoprano svedese si è intimidita, il timbro si è fatto scabro e povero, e la risonanza non trova più il varco sopra la colossale strumentazione dell’ultimo Wagner. Si riconferma, nondimeno, l’eccellenza del comprimariato locale, con un trio delle Norne composto dalle citate Bohinec, Houtzeel e Raimondi.
foto Wiener Staatsoper / Michael Pöhn