di Francesco Lora
Al Maggio Musicale Fiorentino torna dopo lunga attesa The Turn of the Screw, in un nuovo allestimento discreto e quasi inerte, assecondato nell’essenzialità dal direttore-specialista Webb e da una valida compagnia di canto.
FIRENZE, 7 giugno 2015 – Con dieci anni di ritardo, ma eccolo. The Turn of the Screw (Il giro di vite) di Benjamin Britten doveva andare in scena al Maggio Musicale Fiorentino del 2005, nel Teatro Goldoni, in un fortunato allestimento di Luca Ronconi e con l’indimenticato Philip Langridge tra gli interpreti. La produzione saltò in toto tra una difficoltà e l’altra dell’istituzione. Un Turn of the Screw di altra pasta, conforme allo stile della mezza generazione trascorsa, è ora passato nello stesso festival e nello stesso spazio, per sei recite dal 22 maggio al 7 giugno. Regìa di Benedetto Sicca, scene di Maria Paola Di Francesco, costumi di Marco Piemontese, immagini video di Marco Farace, luci di Marco Giusti: gli autori della parte visiva sono perlopiù giovani esordienti e talvolta gli stessi della Lotta d’Ercole con Acheloo [leggi la recensione] allestita l’anno scorso al Festival della Valle d’Itria.
Ne risulta uno spettacolo suggestivo benché strutturalmente agile ed economico, fatto di sagome a malapena praticabili e di ombre impresse sui velatini. L’uso delle proiezioni tridimensionali, sperimentato da altri in modo fallimentare nella recentissima Zauberflöte [leggi la recensione] al Teatro Comunale di Bologna, torna qui con ben altro impatto di meraviglia: le immagini simboliche che sembrano prendere corpo e librarsi dal palcoscenico fin sulle prime file di platea schiudono nuove vie tecnologiche per la scenografia del teatro d’opera. Discreta e quasi inerte rimane però la riflessione teatrale sul racconto di Henry James, sul libretto di Myfanwy Piper e sulla musica di Britten, tutti e tre enigmatici e passibili di più autorevole colpo d’ala: l’azione sembra quasi nascosta sul fondo, allontanata dallo sguardo dello spettatore e da un vero interesse del regista; le note di regìa nel programma di sala aggiungono al fievole l’evasivo, e nell’esegesi culturale e teatrale si fanno battere sul campo dal disinibito saggio musicologico di Davide Daolmi (di fatto una regìa da leggere). La platea è sfidata nel finale, con uno spunto lì lanciato ma non svolto, e nemmeno con valore retroattivo; lo si ha quando Miles pronuncia le oscure parole «Peter Quint, you devil»: invece di imprecare a non si sa chi per poi accasciarsi morto, il fanciullo acclama con scherzosa complicità il fantasma, si fa da lui rapire in chissà quale mondo parallelo e abbandona con irrisione l’istitutrice a una pazzia ormai conclamata.
Nella parte musicale, la direzione è assunta dallo specialista Jonathan Webb, concertatore di riferimento per Britten in Italia. Egli si guarda bene dal replicare a oltranza una stessa lettura, dopo le esperienze nel Circuito Lirico Lombardo del 2007 e al Teatro Comunale di Bologna nel 2013 [leggi la recensione]; alla testa di prime parti dell’Orchestra del MMF, chiede così sonorità sempre più asciutte, rigorose, sobrie e impassibili, ben appaiate con ciò che si vede o intravede in scena.
La compagnia di canto si lascia incorporare in questa visione complessiva, rinunciando a guizzi individuali e rimanendo mera esecutrice di un’azione distante. Dopo il recente spettacolo bolognese, si ritrova con piacere l’Istitutrice di Sara Hershkowitz, la quale suggerisce ora fragilità ora determinazione ora isteria nell’abilità della recitazione, e concilia una voce chiara e giovanile di timbro con una risonanza di tutto rispetto; e da Bologna a Firenze si ritrova ancora la Mrs. Grose di Gabriella Sborgi, la più vivace del gruppo nel restituire con rotonda voce mediosopranile l’indignazione, la cordialità e le esitazioni della domestica. Incisivi, fluviali e vetrosi, come ben si attagliano a un fantasma, suonano a loro volta i versi e il canto di Yana Kleyn come Miss Jessel. Non ben a fuoco è invece John Daszak, fin troppo brusco e scabro nell’eloquio del Prologo e privo del fascino da sirena – oltre che, talvolta, della giusta intonazione – nei melismi che richiamano Miles. La questione più delicata di ogni Turn of the Screw, come si sa, è infine la scelta e la prova delle voci bianche impegnate in ruoli teatrali e brani musicali onerosi: Theo Lally, come Miles, è più esuberante nel gesto che con la voce, un poco affaticata e intimidita, mentre Rebecca Leggett, come Flora, è già una piccola primadonna perfettamente padrona di fraseggio, tecnica e capricci.
Foto Terra Project - Contrasto