Amami Alfredo, ma senza passione

 di Luis Gutierrez

 

Mediocrità di concetto e realizzazione hanno caratterizzato non solo la messa in scena, povera e incoerente, di questa Traviata, ma anche la resa musicale, con un'orchestra imprecisa e una Violetta, Marcela Chacon, che non ha saputo esprimere né passione né forza.

Città del Messico, 11 giugno 2015 - La produzione di Juliana Faesler e Clarissa Malheiro è caratterizzata da mediocrità di concetto e realizzazione. Il primo atto colloca l'abitazione parigina di Violetta a metà del XVIII secolo, come indicano i costumi e l'uso di parrucche - che tanto disgustavano Verdi, il quale, appunto, stante l'imposizione della censura di evitare l'epoca contemporanea, optò per l'epoca del cardinale Richelieu, prima, cioè, dell'affermarsi della moda delle parrucche, di cui sappiamo proibì l'uso dalla lettera di Piave a Brenna del 5 febbraio 1853. Chiaramente né le registe né il costumista hanno approfondito ciò che concerne il processo creativo dell'opera da parte di Verdi, limitandosi a cercare nei magazzini delle Bellas Artes ciò che pareva loro buono per lo spettacolo. E devo dire che la loro ricerca è stata particolarmente sfortunata. La prima scena del secondo atto si svolge fra tubi che simulano la casa di campagna e i costumi sono anacronistici, con una Violetta che continua a vestire alla moda del XVIII secolo, Germont è abbigliato come nel XIX e Alfredo come nel XX. Nel quadro seguente tutti i coristi maschi indossano smoking – i loro personali? – e le donne si presentano come se lavorassero in un bordello gestito da Flora. Il terzo atto collocato nel padiglione dei malati di tubercolosi in un ospedale del XX secolo è semplicemente patetico. Violetta in vestaglia e i Germont in redingote “chiudono il cerchio”, quasi, dei costumi, se non fosse per la trovata originale di un gruppo di comparse ambosessi di cui la metà indossa abiti da camerieri molto "graziosi" e l'altra gonne in tulle da ballerina classica e, pure loro, redingonte. Questo è stato un pugno nello stomaco. Al levarsi del sipario su terzo atto, apparivano le comparse al proscenio, dando le spalle al pubblico e camminando fino al fondo del palco per collocare delle camelie: che delizia!

Le registe e il costumista hanno voluto guidarci in un viaggio culturale che, semplicemente, è incappato in un fosso affondando drammaticamente. 

La scenografia, disegnata da Erika Gómez era davvero poverissima. Le luci di Juliana Faesler si concentravano su variazioni di colore che nulla avevano a che fare con il dramma. A discolpa del "team creativo" bisognerà dire che le risorse di questa produzione erano davvero minime, indegne di ciò che l'INBA dovrebbe fornire. A proposito, che fa l'onnipresente Bertha Coutiño accreditata in tutte le produzioni della Ópera de Bellas Artes come “productora ejecutiva?

Certamente per assistere all'opera bisogna sospendere l'incredulità, ma senza esagerare. Violetta muore dopo aver cantato in piedi tutto il terzo atto. Mi pongo due domande: perché non ha usato le stampelle che stavano al suo capezzale? è morta di tisi o di stanchezza? Altro tocco "creativo" è il fatto che Germont vada a far visita a Violetta, nel secondo atto, accompagnato dalla figlia, che dunque incontra la protagonista e le rivolge uno sguardo di disapprovazione quando entrambe si avvicinano al lato del letto condiviso dagli amanti.

Devo dire che durante gli intervalli alcuni amici mi hanno riferito che la produzione sarebbe migliorata rispetto al debutto.

Il punto cruciale dell'opera, collocato quasi a metà della stessa, è l'esclamazione “Amami Alfredo, amami quant’io t’amo… Addio”: chi la pronuncia senza forza e passione non è una buona Violetta, indipendentemente da come canti il resto del ruolo. Il fatto è che Marcela Chacón era proprio senza passione e forza. Il suo meglio è stato il cantabile dell'aria del primo atto, “È strano…Ah, fors’è lui”, in cui ha superato un tentativo di sabotaggio da parte dei corni. Al termine della cabaletta le registe mi hanno sorpreso facendo apparire Alfredo che abbraccia la sua amata quando chiude, non molto bene a dire il vero, il primo atto.

Arturo Chacón (nessuna parentela con Marcela) ha recitato e cantato un buon Alfredo, benché debba ammettere che la sua voce non arriva a convincermi fino in fondo, mi pare come strozzarsi e divenire metallica nei recitativi; a proposito, devo confessare, però, di non avere una particolare predilezione per le voci tenorili in genere.

Jesús Suaste è stato un notevole Germont.

La maggior parte degli interpreti dei ruoli secondari debuttavano alle Bellas Artes e sono membri dell'Estudio de Ópera de Bellas Artes. Hanno svolto un lavoro più che meritorio, per quanto nel primo atto si sia riscontrata una tendenza a cantar tutto fortissimo.

Questa volta non ho gradito molto la direzione di Srba Dinic dato che non ha fatto sì che l'Orchestra del Teatro de Bellas Artes realizzasse quella trasparenza simile al velo leggero richisto dai preludi degli atti I e III; inoltre, nel primo un violino è entrato evidentemente in anticipo. D'altra parte, l'introduzione orchestrale di “Amami Alfredo” ha annegato il recitativo di Violetta. Il Coro del Teatro de Bellas Artes, diretto questa volta da Jorge Alejandro Suárez, membro dello stesso coro, ha offerto una prova appena sufficiente. Forse la resa è stata influenzata dai costumi. 

Tutta l'opera gira non solo intorno alla sua protagonista, ma anche sull'asse costituito dal quel torrente di passione e forza che è “Amami Alfredo”, se questo grido non commuove, nel migliore dei casi si è trattato di una recita mediocre.

foto © Ana Lourdes Herrera