Le relazioni irrinunciabili

 di Gustavo Gabriel Otero

 

Debutta nelle Americhe Quartett di Luca Francesconi nello stesso allestimento e con gli stessi interpreti della prima assoluta alla Scala nel 2011. Produzione eccellente, ma sorge il dubbio che senza questa messa in scena e questi artisti l'opera tratta dalle Liaisons dangereuses difficilmente possa affermarsi per il suo valore autonomo.

BUENOS AIRES, 16 giugno 2015 - Ha avuto luogo al Teatro Colón di Buenos Aires il debutto americano dell'opera Quartett dell'italiano Luca Francesconi, nato a Milano nel 1956, Luca Francesconi. Una realizzazione scenica di grande impatto, con interpreti straordinari, ma l'opera è risultata, più che controversa o trasgressiva, un poco noiosa.

Quartett è scritta in inglese con testo dello stesso compositore tratto da Heiner Müller, che a sua volta si basa su Les liaisons dangereuses di Choderlos de Laclos, ovvero una rilettura di una rilettura, in cui nulla resta della raffinata aristocrazia rococò dell'originale. Non abbiamo qui un quartetto nel senso letterale del testo e l'opera ha due soli personaggi: la Marchese di Merteuil e il Visconte di Valmont, che alternativamente cambiano ruolo e si calano nei panni di Madame de Tourvel o di Madame de Volanges. Un gioco di perversione destinato all'annichilimento, con una scrittura insolente che non spicca mai un volo poetico, e con un contenuto poco teatrale.

La sraordinaria messa in scena esplicita l'idea dell'isolamento dei due personaggi in un dispositivo scenico impeccabile costituito da tre spazi: un cubo senza pareti né davanti né dietro – l'appartamento dove si svolge l'azione - soggetto a un'infinità di fili sottilissimi e apparentemente sospeso nell'aria, uno spazio esteriore alla cella nel quale si proiettano i desideri, i sogni e i turbamenti mentali della coppia, e, infine, un terzo che rappresenta la forza della natura in movimento, e che appare in ben raramente mostrando il mare o un deserto.

La cornice scenica di Alfons Flores è spettacolare, i movimenti e il concetto generale di Alex Ollé, con il marchio del genio della Fura dels Baus, sono curati con precisione millimetrica. Perfetti i costumi di Lluc Castells, con il conseguente cambio d'abiti quasi a vista, miracoloso in questo cubo chiuso, e spettacolare il disegno luci di Marco Filibeck, ben accompagnato dalle proiezioni di Franc Aleu. Senza dubbio il miglior lavoro, fra quelli visti nel repertorio operistico a Buenos Aires, del collettivo catalano.

Il linguaggio musicale di Francesconi è variegato e politonale. La partitura si sviluppa su due piani, un'orchestra da camera in buca e un nastro registrato con grande orchestra, coro, rumori e suoni elettronici. Un ottimo lavoro dei solisti convocati dall'organico dell'Orchestra Stabile del Teatro Colón sotto la direzione attenta e pulita di Brad Lubman, cui si univa l'intrigante ed enigmatico suono inciso in occasione della prima mondiale dai complessi della Scala di Milano e dall'IRCAM di Parigi.

I due solisti vocali, i medesimi del debutto mondiale al Teatro alla Scala nel 2011, sono stati formidabili. La scrittura è ardua e complessa, passa dal parlato al canto, con salti di ampi intervalli, con ricorso al falsetto e talora all'amplificazione. Un impegno vocale e attoriale estenuante per i cantanti che si trovano in scena per la quasi totalità degli ottanta minuti di durata dell'opera. È difficile immaginare la possibilità di affrontare quest'opera per altri che non siano il baritono Robin Adams e il mezzosoprano Allison Cook.

Con tutta la sue pretesa di trasgressione, l'opera in sé non arriva ad avere l'effetto dovuto. Risulta abbastanza noiosa per un testo di poca tensione drammatica e con musica interessante che, però, appare come un mero accompagnamento. L'eccellenza consiste nella produzione e negli interpreti; la domanda che sorge è dunque se l'opera potrà avere vita autonoma anche in altri allestimenti e con altri artisti.

foto Prensa Teatro Colón/Máximo Parpagnoli (campi medi e ravvicinati) - Prensa Teatro Colón/Arnaldo Colombaroli (campi lunghi)