di Emanuele Dominioni
La scelta da parte del Teatro alla Scala di puntare su titoli di grande richiamo per il pubblico da affiancare all'evento EXPO, porta con sè inevitabilmente il rischio che la qualità artistica ceda il passo alla quantità. In questa trappola cade purtroppo la Tosca firmata da Luc Bondy, spettacolo ripreso in questa stagione dopo tre anni di assenza, in cooproduzione col Met di New York, e la Bayerische Staatsoper di Monaco.
MILANO 24 giugno 2015 - Nella scarna messa in scena pensata dal regista svizzero (con l'ausilio di Richard Peduzzi), si perde ogni traccia della romanità papalina di inizio '800 per lasciare spazio a una serie di set teatrali all'insegna di un'essenzialità scenica che risulta a lungo andare fine a se stessa. La chiesa di Sant'Andrea somiglia più a una prigione di mattoni in cui si innestano finestre e feritoie, donando alla scena un aspetto claustrofobico e desolato. La stessa sobrietà caratterizza in larga misura i successivi due atti, ove lo studio di Scarpia diventa una sorta di boudoir dalle tinte vermiglie e fiammeggianti arricchito da un arredo anni '40. Una regia che, nella sua sopita contemporaneità estetica, non aggiunge nulla di nuovo a livello scenico né sul piano delle idee, e che si segnala invece per le suggestive luci di Michael Bauer e una puntuale e fresca caratterizzazione dei personaggi. Tosca in particolare è al centro della vicenda e non più vittima di Scarpia. Nel secondo atto assistiamo al suo struggimento interiore, in cui la diva passa in secondo piano rispetto al turbamento psicologico e alle insicurezze della donna. Già dopo aver pugnalato Scarpia (ripetutamente, come posseduta ) ella minaccia il suicidio saltando sulla finestra per poi ritirarsi; sparisce in questo contesto la scena dei candelabri che normalmente vengono accostati al cadavere di Scarpia, così come la fuga della cantante dal luogo del delitto, per lasciare spazio al suo accasciarsi sul divano, inerme e sotto choc. Anche le figure di Spoletta e del Sagrestano acquistano una caratterizzazione ben precisa e lungi dalle tradizionali macchiette. Quel che manca è, inutile dirlo, una contestualizzazione scenica organica e funzionale alla vicenda e a questa musica. I costumi rimangono fedeli all'ambientazione originale mentre scenicamente il dato contemporaneo emerge in tutta la sua scarna essenzialità. Qual sia il motivo di questa scelta ci sfugge e rimane indeterminato soprattutto sul piano della verità teatrale.
Musicalmente assistiamo al debutto scaligero di Béatrice Uria Monzon. Nonostante la corda mezzosopranile, la cantante francese non ha problemi di tessitura nell'accostarsi alla temibile scrittura di Tosca. Di per sé, però, il timbro scuro e pastoso e una vocalità drammatica comunque di un certo peso non bastano da sole a designare una performace credibile. L'emissione risulta particolarmente sfuocata, inficiata da una scarsa proiezione del suono e da una dizione davvero ostica. Sono, così, compromessi sia il fraseggio sia l'incisività dell'accento soprattutto nelle scene più drammatiche del secondo atto, perno della vicenda. Va da sé che le numerose sferzate all'acuto su cui la parte fa perno non lasciano il segno e si perdono in una linea di canto da rivedere. "Vissi d'arte" invece scorre fluido nonostante una certa fretta nel voler arrivare alla fine dell'aria. La presenza scenica è ben lontana dai tratti della diva, e più vicina a una donna insicura e perennemente scossa dalle altrui brame.
A fianco a lei troviamo il Cavaradossi di Fabio Sartori. Dotato di una voce corposa, squillante e ben proiettata, Sartori è ormai presenza fissa alla Scala da molti anni. Le arie sono cesellate con grande maestria e pathos, e l'invettiva "Vittoria, vittoria" del secondo atto colpisce nel segno. Quel che manca è però una credibilità scenica compromessa da un fisicità davvero eccedente che, lungi dal poter ricreare una coppia credibile con questa Tosca, nega al ruolo una verosimiglianza fisica e psicologica adeguata a questo contesto registico, tutto giocato, lo ribadiamo, sulla interrelazione fra i personaggi.
Sottotono lo Scarpia di Zeljko Lucic che, sebbene sia un veterano di questo allestimento, convince sul piano scenico e attoriale, meno su quello prettamente vocale. Nella cornice registica di Bondy, Lucic disegna uno Scarpia più insinuante e untuoso che becero e maligno. La voce però risuona spesso intubata e povera di armonici e nelle sue inflessioni drammatiche tende più al parlato che a un maggiore spessore vocale, immiserendo la tensione musicale. Positive invece le prove di Alessandro Spina come Cesare Angelotti, dotato di presenza scenica di invidiabile fascino e vocalità ben a fuoco, di Matteo Peirone come Sagrestano, di cui segnaliamo la dizione impeccabile e un fraseggio dalla comicità verace, e di Blagoj Nacoski come Spoletta. Carlo Rizzi dirige con sicurezza di intenti e grande professionalità l'Orchestra e il Coro del teatro alla Scala, nonostanteci si trovi di fronte ad un contesto di grande routine e uno spettacolo che in ultima analisi è parso molto sottotono rispetto agli altri titoli di questa stagione.
foto Brescia Amisano