di Francesco Lora
Il Teatro La Fenice allestisce in forma scenica Iuditha triumphans, oratorio-capolavoro di Vivaldi. L’operazione è però compromessa da scelte musicali e teatrali non condivisibili, che penalizzano le maestranze del teatro e la compagnia di canto.
VENEZIA, 27 giugno 2015 – L’idea di portare oggi in scena oratorii per musica, con gesto e costumi, ha più forza d’argomento di quanto si possa credere. Quelle azioni drammatiche concepite per il solo ascolto, infatti, interpellano situazioni oggi più che mai attuali nei loro significati e simboli, e invitano la mente a immaginare quadri indefiniti o prodigiosi o mutevoli, compatibili più con la scenotecnica contemporanea che con quella moderna. A braccia aperte si sono dunque accolte le cinque recite, in forma scenica al Teatro La Fenice dal 25 giugno al 5 luglio, di Iuditha triumphans devicta Holofernis barbarie (Il trionfo di Giuditta nell’annientamento del barbaro Oloferne): questo unico oratorio superstite di Antonio Vivaldi è anche uno tra i suoi capolavori sommi, per esibizione senza fine di risorse retorico-musicali, nonché uno tra i più alti conseguimenti nel genere tutto; il legame con Venezia, poi, è totale: la partitura fu composta per le virtuose musiciste del Pio Ospedale della Pietà, nell’auspicio di un trionfo decisivo della Serenissima sull’Ottomano che ne minacciava i possedimenti (1716).
Come sempre accade, però, partiture di implicazioni culturali superiori impongono competenze speciali all’interprete incaricato di decodificarle. Il caso storico della Iuditha triumphans sfiora il paradosso: il manoscritto vivaldiano è quantomai chiaro nelle sue prescrizioni, eppure si è dovuto attendere il 2000 per avere, al Festival Opera Barga e poi in CD, una lettura di riferimento che facesse piazza pulita degli errori esegetici tramandati per mera mala osservanza del dettato d’autore. Noncurante di questo precedente e fermo alla sua lettura discografica, nello spettacolo veneziano il concertatore posto al vertice dell’operazione, Alessandro De Marchi, rasenta invece il dolo con le proprie scelte, soggettive e non scientifiche e spesso in aperta contraddizione con i principii dell’opera. Seguono esempi, per dimostrare che non si raccontano favole.
Iuditha triumphans non è propriamente un oratorio privo o mutilo di sinfonia: il suo coro d’apertura vanta un’ampia introduzione strumentale che ne può fare appieno le veci; De Marchi intende invece tale introduzione come terzo movimento di una sinfonia all’italiana da ricostruire e, non avendo a disposizione alcun brano vivaldiano ideale allo scopo, procede alla contraffazione del concerto per violino RV 562, delegando a trombe le parti dei corni e non avvedendosi che un brano con tale struttura (alternanza di solo e tutti nello stile del concerto solistico) mai avrebbe potuto tenere il ruolo di sinfonia d’oratorio. Fin dal coro iniziale, balza all’orecchio l’apoteosi di un abbaglio duro a morire; poiché l’istituto della Pietà era femminile, ecco che la scrittura a quattro parti è fatta oggetto di dubbio: la parte del Tenore è trasposta all’ottava superiore, spesso scavalcando quella del Soprano, ed è così promossa da parte interna riempitiva a principale parte melodica, offendendo l’evidenza funzionale ed elocutiva (gioverà ricordare che nella carte della Pietà si trova allusione a signore tanto agiate nel registro grave da essere indicate come tenori).
Altro macroerrore: a differenza delle arie in stile napoletano, codificate nel decennio successivo, quelle della Iuditha triumphans non predispongono il luogo per l’improvvisazione di lunghe cadenze a coronamento di sezione, ma di norma vedono il canto correre spedito verso il ritornello strumentale che ne sigla l’intervento; non così nello spettacolo alla Fenice, dove ogni aria è interrotta a forza pur di inserirvi vocalizzi estranei per gusto e stile. Si contestano i criteri di preferenza, soprattutto poiché ad affiancarli sono pasticci e non apologie: delle due arie di Vagaus «Matrona inimica» e «O servi, volate» esiste una doppia stesura, dove la seconda è sempre più accattivante della prima; De Marchi sceglie invariabilmente la prima, ossia quella accantonata dall’autore, anche se in un caso ciò significa perdere una tra le più folgoranti sortite vivaldiane per preferirle un generico brano per voce e basso continuo, e anche se nell’altro caso si sconfina nel ridicolo: la prima stesura, rispetto alla prima, si distinguerebbe infatti per l’inusuale accompagnamento di quattro tiorbe, qui ridotte a due per penuria di professori in orchestra.
Si è solo all’inizio delle manomissioni nell’organico strumentale. Nell’intervento mediano di «Mundi Rector, de cæelo micanti», lo straniante duo di soprani accompagnati da due violini e senza basso continuo è guastato dall’arbitraria reintroduzione di quest’ultimo. In «Transit ætas» l’accompagnamento è realizzato non a uno ma a due mandolini, con ciò vanificando l’intenzione timbrica e aumentando il solo tasso d’imprecisione. In «Summe astrorum Creator ... In somno profundo» non v’è traccia del necessarissimo consort di viole da gamba, con il suo timbro tagliente e la sua sonorità minuta, sostituito da strumenti della famiglia dei violini a parti reali. Cavilli da musicologo? Non lo sarà la critica delle scelte agogiche: pressoché tutti i numeri chiusi sono staccati sottotempo, con ogni Allegro trasformato in Adagio e ogni Andante trasformato in Largo, e con i brani privi di indicazione d’autore fraintesi nella loro situazione e aspettativa: tempi da catalessi attendono persino «Veni, veni, me sequere fide», dove Iuditha esorterebbe per contro Abra a spicciarsi su quartine di semicrome, e dove lo chalumeau evocherebbe il duttile canto d’una tortora anziché la sua agonia, nonché la furente e celebre «Armatæ face et anguibus», dove le fiamme dell’inferno spalancato divengono lutulenti barlumi all’acido lattico.
In questo orizzonte, gli sbagli del podio ricadono su tutti gli altri; e guai a chi non ha spalle solide per tutelarsi da sé. L’Orchestra del Teatro La Fenice, che nell’ultimo decennio ha fatto passi da gigante dal punto di vista tecnico, e che collabora valorosamente con specialisti di musica antica, si trascina qui a orecchi bassi, gli occhi fissi ai leggii, senza slancio e quasi a volersi nascondere; il Coro – solo femminile, come s’è detto – mostra tutto l’impegno possibile in un contesto che tuttavia lo mortifica. La parte visiva ha regìa di Elena Barbalich, scene di Massimo Checchetto, costumi di Tommaso Lagattolla e luci di Fabio Barettin: qui e là si tenta di parafrasare la Giuditta pittorica del Caravaggio o di Artemisia Gentileschi, nell’economia che conta sulle luci di Fabio Barettin e che esclude quasi del tutto i praticabili. Non ha però pregio particolare la concezione “femminista”, che vedo il coro sempre e solo nelle vesti delle donne di Betulia anziché anche in quelle dei guerrieri di Oloferne. E spiazza leggere, tra le note di regìa nel programma di sala, la volontaria esclusione della scabrosa analisi militare-politica, ossia il primo tema che innerva il libretto e che vanta triste attualità ancora ai nostri giorni nei conflitti tra Occidente cristiano e Oriente islamico.
La compagnia di canto è nell’insieme funzionale, con oscillazioni dal poco più al molto meno. Merito ha il contralto Teresa Iervolino come Holofernes: il suo terreno d’elezione è – e sarà viepiù – Rossini, fino a possibili escursioni da Donizetti e Bellini a Verdi; nel frattempo, ella coltiva saggiamente anche il repertorio settecentesco, cui garantisce pasta, smalto e vocalizzazione piena. Soprattutto, è la sola a lavorare a fondo sull’enfasi declamatoria del testo latino. Inadeguata alla parte protagonistica è invece Manuela Custer, la gamma della quale manifesta gravi fratture tra i registri ed emissione flebile e fin troppo sorvegliata, con licenza tuttavia di censurabili frasi en poitrine di gusto verista. Si accoda a tale modello Francesca Ascioti come Ozias, mentre Giulia Semenzato come Abra e Paola Gardina come Vagaus avrebbero meglio figurato a parti invertite: rimangono comunque belcantiste di solida esperienza, non passibili di obiezioni. Applausi casuali interpunti da giusti dissensi; in penultima fila di platea, un direttore artistico di punta dormiva (non autorizzato) sulla spalla di un celebre soprano, con ciò rinnovando la stima al direttore da lui spesso scritturato; lasciando la sala, si udivano ingrate accuse di noia a Vivaldi. Bel lavoro, non c’è che dire, bel lavoro.
foto Michele Crosera