di Stefano Ceccarelli
Un cartellone tutto pucciniano è l’accattivante offerta del Teatro dell’Opera di Roma per la calda stagione estiva romana. Ad aprire i lavori è un’opera tra le più belle di sempre: Madama Butterfly, che sarà accompagnata (in contemporanea) da Turandot e La bohème. Di Madama Butterfly la direzione è affidata a Yves Abel, la regia a Àlex Ollé. Stupisce sicuramente la regia: Ollé fa parte de La Fura dels Baus, che – come sa chiunque ne abbia potuto ammirare uno spettacolo – è sempre in primissima linea nella sperimentazione registica e teatrale. Troppo convenzionale, a tratti piatta, la direzione di Abel. Nel cast spiccano, su tutti, la Grigorian e la Malavasi. L’allestimento è in collaborazione con l’Opera Australia (Sydney Opera House).
ROMA, 9 luglio 2015 – La stagione monografica delle Terme di Caracalla, che l’Opera di Roma sceglie di tributare interamente a Giacomo Puccini, esordisce con la celebre opera Madama Butterfly, uno dei capolavori del lucchese (per quanto mi riguarda: il capolavoro), che avrà sei riprese fra luglio e agosto –la première s’è avuta il 6/07 e l’ultima replica avrà luogo, a distanza di un mese, proprio il 6/08. Notevole lo sforzo di curare la contemporanea mise en scène di tre partiture pucciniane: Madama Butterfly, Turandot e La bohème si alterneranno fra luglio e agosto nella cornice delle terme antoniniane. Contando, poi, che Turandot presenterà addirittura un nuovo allestimento, a firma di Denis Krief (che ha già curato per l’Opera di Roma, in questa medesima stagione, la Rusalka di apertura). La bohème vedrà la ripresa dello spettacolo di Livermore già visto lo scorso anno; Butterfly è in coproduzione con la Sydney Opera House.
Il reale pregio di questa edizione romana di Madama Butterfly è la geniale regia di Àlex Ollé: intelligentemente anticonformista, dal forte impatto visivo, la regia di Ollé ha tutte le caratteristiche di un direttore artistico de La Fura dels Baus (1979). Dopo le prime sperimentazioni personali (negli anni ’80) e l’inizio della collaborazione con La Fura, Ollé esordisce come regista nel 2013. E la sua firma è chiaramente intrisa dei colori della Fura. Si sa: la Fura dels Baus è un perfetto esempio di un tipo di approccio al teatro che può fermamente sconvolgere. In sintesi, può accadere che o si amino, o si odino le loro regie (loro, giacché la Fura è un’associazione di sette direttori artistici). Ma chi le odi, non dovrebbe mai farlo di stomaco: del resto, «penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista» (P. P. Pasolini). La “furana” regia di Ollé, anzi, abbandona taluni eccessi “scandalosi” e si adatta alle peculiarità drammaturgiche della Butterfly. È soprattutto questo che ammiro nella Fura: tutte le loro regia hanno sempre un’idea intelligente che le impernia e le struttura, non mostrando mai grossolane illogicità e stimolando sempre l’attenzione e la curiosità del pubblico – o, perlomeno, di quel pubblico che sappia, o voglia, coglierne le continue allusioni, in un gioco perenne di raffinato alessandrinismo. Ollé immagina che B. F. Pinkerton divenga, una volta stabilitosi a Nagasaki, un imprenditore-squalo nel campo dell’edilizia. Sulle celeri, energiche (e pur “nipponicamente” aggraziate) note del brevissimo Allegro in preludio, un operaio sta tracciando le strisce per una nuova abitazione su un campo vedere, curato, dove frattanto eleganti camerieri apprestano il ricevimento nuziale che F. B. Pinkerton ha preparato per celebrare il matrimonio con il suo nuovo acquisto: la bella e giovanissima Madama Butterfly. Il sensale Goro fa anche il geometra, discutendo dei piani di costruzione con Pinkerton. Un Giappone in cui si intravedono ancora talune «figure da paravento», come un grazioso ed esile boschetto di bambù, ma che sta per essere brutalmente violentato dallo sciacallaggio imprenditoriale occidentale. Butterfly, ultima, estrema epicorica effigie, fa la sua entrata imbozzolata in un abito candidamente bianco, con le compagne, fra il canneto di bambù, esaltata da una tenue luce alle spalle. Il momento è assai poetico: un vero coup de théâtre. È Pinkerton che la svelerà al pubblico, che la renderà farfalla – nomen omen – e ne «infrangerà l’ale». I costumi classici di Butterfly e delle sue damigelle (con un modernizzato e stilizzato chimono rosso, non certo esente dalle influenze della cultura manga) sono l’unico elemento realmente giapponese della scenografia – se si prescinde dal boschetto di bambù; un prato verde, ampio, con dei tavolini sulla destra e una semplice struttura effimera a mo’ di decorazione (qualche palo bianco con morbidi veli rossi svolazzanti al vento e delle sedie) sono gli unici altri scarni elementi. La gaia atmosfera del matrimonio è interrotta dall’arrivo di Bonzo, secondo coup de théâtre: Bonzo è il capo di un’associazione mafiosa e lo accompagnano i suoi scagnozzi, con tanto di bastoni (sorta di moderni ninja in occhiali da sole). La scena è sapientemente giocata fra l’aspetto comico della citazione tarantiniana (alla Kill Bill) e l’opposizione fra un prepotente occidente e un oriente occidentalizzato nella foggia degli abiti. L’occidente, dunque, ha già vinto: l’elegiaco duetto amoroso, finale del I atto, rappresenta una Butterfly conquisa, ammaliata, in balia di Pinkerton, in un’atmosfera trasognata – certo, la proiezione della luna sui bastioni termali e la calda notte romana hanno aiutato. Il secondo atto sancisce uno stravolgimento totale. Pinkerton ha deturpato Nagasaki con i suoi abusi edilizi: Ollé proietta sulle rovine termali dei grattacieli in costruzione, che andranno, mano a mano che l’opera arriverà alla conclusione, in rovina. Al centro della scena v’è una baracca che svetta in un inferno di cemento – degli operai entrano in scena e lavorano a degli scheletri di fondamenta: l’effetto dei tableaux vivants è perennemente cercato da Ollé. Cio-Cio-San è diventata una sorta di Harajuku-girl: veste con abiti kitsch occidentali, ostentando sul petto la bandiera Stars and Stripes. La sua fede è incrollabile, indefessa: Ollé gioca, volutamente, con le tensioni naturalmente scaturite dal testo e della musica, dalla drammaturgia in sé, mescendovi elementi trash e di ostentata pacchianeria, come l’ingresso del ricco Yamadori. Ollé tesse sapientemente le fila di una continua inventiva registica, giocando con i diversi registri drammaturgici. Il finale è straziante, pur non rispettando le volontà librettistiche: durante l’estrema aria di Butterfly, il figlioletto, trattenuto dalle braccia di Suzuki, chiama straziantemente la madre, che si andrà a uccidere proprio dentro la baracca – Butterfly non benda il figlio per poi uccidersi. Io non ho retto alle lacrime: avevo il cuore in gola. Ollé ha creato, con un linguaggio del tutto innovativo, una Madama Butterfly moderna, intelligente, drammaticamente trascinante. Le scene di Alfons Flores e i costumi di Lluc Castells hanno coronato questa incredibile atmosfera. Un’atmosfera che ha la sua matrice originale, e sintesi, nella vittoria colonialista dell’occidente sull’oriente: «proponiamo un significato definitivo dell’opera come perdita del paradiso, e il personaggio di Pinkerton diviene simbolo di uno tsunami neoliberista – ultima conseguenza del feroce colonialismo –, capace di distruggere ogni cosa», afferma Ollé (programma di sala).
Non così bene si può parlare per l’aspetto musicale e vocale. Il direttore, Yves Abel, dà una lettura a tratti semplicistica, piatta, inadatta a far risplendere gl’inebrianti, morbidissimi effluvi ambiguamente orientaleggianti: del resto «quest’orchestra frammentata, pulviscolare di Butterfly procede su linee melodiche del tutto instabili, su una ritmica che parte disossata: un leit-motiv insegue l’altro, lo scancella o vi si insinua dentro fino a slogarlo con trepido ribollìo» (E. Siciliano, Puccini). Tutto questo dolce screziarsi delle armonie era assolutamente inavvertibile da una direzione dinamicamente monotona e – il direttore qui non c’entra, ovviamente, nulla – da un impianto acustico e amplificativo assolutamente, anzi necessariamente, perfettibile (si sono verificati diversi problemi): l’orchestra ha avuto qualche problema, peraltro legato proprio all’irreale acustica microfonata. Il cast vocale vede certamente le sue punte di diamante nella Grigorian e nella Malavasi. La lituana Asmik Grigorian canta il ruolo del titolo, tra i più estenuanti, e belli, che la storia dell’opera ricordi: discreta potenza vocale, con armonici ad ampio spettro, e vivace timbro, ancorché poco caratteristico, sono le peculiarità della sua voce, che deve riscaldarsi nel I atto, per dare il meglio di sé negli altri due. L’entrata di Butterfly è in sottotono: la Grigorian canta la pur lecita variante finale senza lo splendido sovracuto in re bemolle; svetta per fraseggio e coinvolgimento nel «Nessuno si confessa mai nato in povertà»; nel finale I, il duetto «Bimba, bimba, non piangere», funestato da imprecisioni continue del tenore, è chiuso con un do naturale sovracuto strozzato dallo stesso tenore, mal tenuto e pessimamente emesso d’ambo le parti. Nel II atto la Grigorian dà il meglio di sé: soprattutto come attrice, trascinante, commuovente nel nuovo ruolo di giovanissima sposa occidentale/trash. «Un bel dì, vedremo», benché troppo calcata in più di un punto, viene elegiaca, con filati e carezze vocali. Nel III, il duetto fra Suzuki e Butterfly, «Scuoti quella fronda di ciliegio», è tra i momenti più belli e vocalmente riusciti della serata: Malavasi e Grigorian sono in gran sintonia. Il finale III è un momento di altissimo pathos: l’aria finale riesce con incredibile drammaticità alla Grigorian. Come suddetto, l’altra grande protagonista è la Suzuki di Anna Malavasi, la cui voce suadentemente umbratile, piena, ricca, polposa, scolpisce un personaggio troppo spesso accantonato in secondo piano. Momenti indimenticabili: l’incipit del II, «E Izagi ed Izanami, Sarundasico e Kami…», il duetto del III con Cio-Cio-San (il duetto “dei fiori”) e tutta l’accorata parte in recitativo che porta alla chiusura dell’opera. Lo Sharpless di Alessio Arduini ha un possente mezzo vocale (Arduini è, chiaramente, un basso/baritono) e un timbro scurissimo, inusuale per un ruolo tradizionalmente demandato a una vocalità meno fonda: eppure, il fraseggio e la facilità di emissione – notevoli i legati – conducono a una più che buona esecuzione, culminante nella straziante scena della lettera (II atto), dove Arduini dà prova di saper modulare in singhiozzi spezzati la linea del canto. Vero tallone d’Achille della serata è il tenore Angelo Villari, che ha dovuto sostituire l’indisposto Sergio Escobar. Voce debole e povera di armonici, nasale e belante, canta quasi tutto condendolo con un’intonazione periclitante e un’interpretazione superficiale. Si salva qua e là per qualche recitativo ben piazzato, ma la performance è complessivamente molto negativa: una serata no? I comprimari esprimono un buon canto: Saverio Fiore (Goro), Anastasia Boldyreva (Kate Pinkerton), Andrea Porta (Il principe Yamadori), Fabrizio Beggi (Lo zio Bonzo), Federico Benetti (Il Commissario Imperiale) ecc. Il coro porta a casa una dignitosa performance, altalenante in alcuni momenti: molto bene «O Kami! O Kami!», meno il celebre Coro a bocca chiusa, dove i due registri vocali non si armonizzano sempre perfettamente – mi è sembrato, inoltre, che il coro contasse meno elementi del solito.
Una serata, in conclusione, abbastanza riuscita, sorretta incredibilmente dalla regia di Ollé. Sfogliando il programma di sala, non ho potuto che constatare la folgorante verità di queste parole di Franco Serpa: «chi si commuove troppo presto o chi s’indigna della commozioni, non sa che il mistero dell’inesauribile efficacia emotiva di queste melodie cantate e ricantate, al di là della loro apparente naturalezza, è nella paura, nella contrazione convulsiva degli affetti […]. Il pathos nasce, insemina, da una oscura e desolata sfiducia nell’energia beatifica dell’amore: ma nasce, anche e nonostante tutto, dalla fedeltà all’amore, dalla tenacia dei sentimenti, che è coraggio esistenziale».
foto © Yasuko Kageyama / Teatro dell’Opera di Roma