di Gustavo Gabriel Otero
Arbitrario e a tinte forti, l'allestimento del dittico verista curato da José Cura e ambientato a Buenos Aires con inserti tango. Nel cast si distingue il Tonio di Fabian Veloz.
Buenos Aires, 17 luglio 2015 - Il Teatro Colón ha presentato uno spettacolo ideato al poliedrico José Cura e denominato Cavalleria Rusticana y Pagliacci en Caminito (Homenaje a la inmigración italiana del 900).
Tutto comincia con la registrazione del tango Caminito - composto nel 1926 - con la straordinaria voce di Carlos Gardel e un'azione scenica che mostra almeno due incontri amorosi: quello Turiddu e Santuzza e quello di Nedda e Silvio.
Non siamo né in Sicilia né in Calabria, bensì un angolo del quartiere La Boca nella Buenos Aires dei primi del secolo XX, benché l'ambientazione da "esportazione" di calle Caminito sia molto più attuale, con un bar chiamato Caminito Tango e casette occupate da Lola e Santuzza, una chiesa in legno sul fondo e a destra una piazza con un murale detto La Murga e che si trova a circa tre chilometri da Caminito ed è stato creato nel 1988-1999. Un figurante truccato da Pietro Mascagni segue l'azione e prende appunti, e finalmente comincia la musica di Cavalleria rusticana. Nell'intermezzo l'organo è sostituito dal bandoneón e il grido che proclama l'assassinio di Turiddu è affidato prima allo stesso Mascagni e poi sussurrato da Santuzza.
Al termine di Cavalleria non cala il sipario e gli artisti non rientrano per i ringraziamenti. Si alzano appena le luci in sala e si indica nello schermo dei sottotitoli che comincia l'intervallo. Durante lo stesso un bandoneonista suona tango seduto nella piazza scenografica accanto a Mascagni. Parte del pubblico si ferma ad ascoltare il concerto di tango, altri escono come d'abitudine.
Alla chiamata per la seconda parte e al rientro di tutto il pubblico seguono i Pagliacci. Al principio si mette in scena il corteo funebre di Turiddu, poi entra Ruggero Leoncavallo, si abbraccia con Mascagni, canta il Prologo e se ne va con l'altro compositore. Concluso il prologo un cartello indica che sono passati cinque mesi dall'azione della prima parte. Santuzza si vede gravidanza avanzata, Lola e Alfio passano per la strada e si scoprirà che Silvio è cameriere nella locanda di Mamma Lucia.
Arrivano i pagliacci e la musica è quella dell'opera di Leoncavallo. La frase finale non è, però, detta da Tonio, come in partitura, né da Canio, come in certa tradizione, ma da Mamma Lucia.
Idee irriverenti per qualcuno, straordinarie per pochi, decisamente infelici per una minoranza o volgari per altri, quelle di José Cura non hanno certo lasciato lo spettatore indifferente.
I costumi di Fernando Ruiz sono corretti senza un preciso riferimento temporale, anche se si potrebbero riferire all'ultimo decennio del XIX e al primo trentennio del XX secolo. Le luci ideate dallo stesso José Cura son semplici con momenti decisamente poveri e la scenografia, pure firmata dal tenore, di millimetrica precisione come cartolina postale lascia però poco spazio di movimento ai cori. Il cambio di epoca, luogo e azione non è molesto né aggiunge molto all'azione. Sarebbe forse interessante saggiarne l'effetto, e il potere del tango, in altri paesi, in Europa o in estremo oriente.
Il problema di José Cura regista è un sovraccarico delle tinte violente. Già il verismo abusa di realismo e se nel verismo si esagera si cade nel ridicolo. Valga come esempio Santuzza, che passa l'opera toccandosi il ventre per farci ben capire che è incinta, o il gesto, sempre di Santuzza, in un attacco d'ira al termine del duetto con Turiddu, di colpirsi ripetutamente l'addome tentando, quasi, un aborto naturale, o, ancora, l'evidente cicatrice sul viso di Canio mostrata quando toglie la maschera da pagliaccio.
Tutto pare sopra le righe, con dettagli trascurati, come il fatto che Lola e Alfio vivano accanto alla locanda di mamma Lucia e con Santuzza come vicina, in una prossimità che rende incredibile lo sviluppo del triangolo amoroso; o tenere quasi sempre la polizia in scena senza che possa frenare la violenza che si consuma sotto il suo naso. È ridicolo che la compagnia si esibisca all'aperto nell'agosto argentino, ossia in pieno inverno.
In ogni caso, l'allestimento non darebbe troppo fastidio con le aggiunte parlate in castigliano, i soprattitoli con espressioni "lunfardos" (slang di Buenos Aires) o testo non cantato, il cambio di parole o rime, o la modifica dell'attribuzione di alcune frasi se la resa musicale e vocale fosse di prim'ordine. Un'interpretazione solo corretta sposta il focus sulla scena. Questa non era male, ma senza prendere il volo verso l'eccellenza come in altri allestimenti, anche con cambio d'epoca, visti al Colón, in altre scene dell'Argentina o del mondo. Solo, una volta in più, azioni parallele ben delineate, protagonisti sopra le righe, masse trascurate.
Roberto Paternostro ha offerto una concertazione di routine e ha permesso cambi e alterazioni nelle partiture. Non ultimo l'inserimento del bandoneón nel celebre Intermezzo di Cavalleria in luogo dell'organo, suonando però con intonazione differente rispetto all'orchestra e notevoli squilibri rispetto a essa.
Entrambi i cori sono stati corretti pur con qualche sfasatura, sicuramente dovuta alla bacchetta del maestro Paternostro.
Il tenore Enrique Folger è stato un Turiddu di emissione veemente e talora forzata. Leonardo Estevez come Alfio si è disimpegnato correttamente, mentre Laura Dominguez (in sostituzione di Anabella Carnevalli) quale Mamma Lucia non è stata all'altezza del ruolo.
Guadalupe Barrientos (Santuzza) era afflitta da una faringite e, dato l'annuncio e per rispetto alla persona, non possiamo commentare negativamente il suo lavoro in condizioni di indisposizione. Solo possiamo rilevare una saggia gestione delle forse che le ha permesso di portare a termine onorevolmente la recita.
Mariana Rewerski era una Lola perfetta, per sensualità, linea di canto e fascino vocale.
José Cura ha presentato un Canio arrogante e potente. Con la sua ben nota e personalissima emissione, frasi recitate più che cantate e acuti spezzati.
Fabián Veloz è stato un Tonio di eccellente emissione, distintosi nel prologo nei panni del compositore, e senza dubbio il migliore della serata.
Mónica Ferracani ha soddisfatto le esigenze di Nedda; Gustavo Ahualli (Silvio) e Sergio Spina (Beppe/Arlecchino) non sono stati più che corretti.
foto Prensa Teatro Colón/Máximo Parpagnoli (piani ravvicinati) Prensa Teatro Colón/Arnaldo Colombaroli (campi lunghi)