di Andrea R. G. Pedrotti
Sempre gradito il ritorno all'Arena della tragedia veronese per eccellenza, quella di Romeo e Giulietta. Irina Lungu brilla nei panni della giovane Capuleti.
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VERONA, 8 agosto 2015 - Solo l'Arena può, solo Giulietta può, solo Giulietta nella sua Verona può. Il genere di una città è declinato al femminile, l'anfiteatro scaligero ha un nome femminile e la passione amorosa è il sentimento femminile per eccellenza, personificato nell'immortale giovane Capuleti che nel finale dell'allestimento veronese corre verso l'altrettanto immortale ala, femminile, materna e dolce protettrice, che l'accoglie nel suo tenero abbraccio, condiviso dai cuori di tutti i presenti. La trama di Roméo et Juliette ricalca in maniera quasi completamente fedele la tragedia di Shakespeare, esaltando la passione con la magnificenza dell'atto comunicativo musicale, quindi accentuandone tanto la componente sentimentale quanto quella catarchica.
Come lo scorso anno, lasciamo un posto d'onore, nella descrizione, al finale dell'opera. In qualunque teatro del mondo parrebbe assurdo una corsa a perdifiato di Romeo e Giulietta dopo il trapasso nell'avello dei Capuleti. Ma siamo a Verona e Giulietta, protetta dall'ala, con prepotenza si arroga ancora una volta il dominio della città di cui è simbolo immortale anche nel dramma della sua tragica dipartita. Anche chi non sia abituato al pianto non può porre alcuna resistenza a una delle immagini semanticamente più significative dell'Arena. I due giovani separati in vita possono, miseri nell'esistenza, coronare finalmente il magico sogno, correndo a viverlo verso l'eternità della città che li uccise: eterni come la musica, l'amore, l'Arena, l'ala che già stava al suo posto all'epoca in cui vissero i due giovani amanti e lo stellato, brillante firmamento che ci scruta dall'alto. D'altra parte le stelle sono come le passioni amorose: tanto dolci, quanto capaci di divampare nella più ardente fiamma che la natura conosca.
La componente visiva dell'allestimento rimane deficitaria: purtroppo la regia di Francesco Micheli non è, a nostro avviso, adeguato alla magnificenza dell'opera di Charles Gounod. L'idea generale è quella di sfruttare i grandi spazi pur tenendo in considerazione le costrizioni conformiste imposte dalle rivalità familiari. Juliette è obbligata a cantare l'aria “Je veux vivre” dentro una sorta di gabbia e la sua stessa dimora non è altro che una bislacca costruzione metallica, che farebbe buona figura in qualche immaginifica fiaba ottocentesca. Ci riesce, per esempio, difficile apprezzare appieno il duello fra Roméo e Tybalt a causa dei movimenti di queste strutture, che possono lasciare perplessi, quando si scopre che la cella di Frère Laurent vorrebbe rappresentare una grande ampolla di veleno. Ci sarebbero molte altri dettagli, più o meno marcati, da descrivere, come il curioso apparire di una vettura con ali da pipistrello, in grado di emettere possenti fiammate.
Resta di grandissimo effetto il poderoso coro dell'Arena schierato su grandi strutture metalliche, diviso in blu (i Capuleti) e in giallo (i Montecchi), nel corso del magnifico finale del III atto e, ovviamente, la conclusione dell'opera.
Di alto livello la resa musicale, capace di oscurare tutte le mende registiche, probabilmente anche a causa di cambi scena decisamente meno rumorosi rispetto allo scorso anno, quando assistemmo alla commuovente fuga verso l'arcobaleno di Vittorio Grigolo e Lana Kos [leggi la recensione].
Trionfatrice della serata è stata l'eccellente Juliette di Irina Lungu, musicalmente ineccepibile, perfetta nelle agilità e impeccabile per perizia tecnica, quanto in espressione e fraseggio. Il timbro è rotondo, bello caldo e pastoso. La resa scenica della cantante russa mantiene immutata l'eleganza della giovane di buona famiglia (i Capuleti sono nell'immaginario gli abitanti del più nobile centro storico), unitamente alla fanciullezza di una spensierata tredicenne risoluta. Juliette, infatti, è sognante, ma più disincantata di Roméo, pensa maggiormente all'azione, perdendosi meno in descrizioni di allodole o usignoli: al contrario è lei a decidere di avvelenarsi, mantiene sempre i nervi saldi, fino al suicidio che condurrà i due giovani alla separazione terrena, ma all'immortalità dell'amore per eccellenza, di sogni e letteratura.
Giorgio Berrugi (Roméo), sarebbe un buon interprete, ma la costante indecisione su quale direzione far prendere alla sua carriera fa emergere alcune pecche che con il tempo vanno accentuandosi. Squillo e gestione dei fiati non sono sempre a fuoco. Il fraseggio è discreto, ma il personaggio appare poco spavaldo rispetto ai predecessori in Arena, risultando un Roméo piuttosto anonimo. Tutto questo, ovviamente, fino allo splendido finale, quando - lo ammettiamo - la nostra lucidità viene sempre meno.
Nino Surguladze è certamente uno Stéphano di lusso, visto lo scarso impegno nel corso dell'opera. La cantante georgiana risolve la parte con molto stile, bel fraseggio, linea di canto e appropriata partecipazione scenica.
Nonostante una vistosa, quanto sfortunata, caduta per le scale Alice Marini, delinea una buona Gertrude, molto partecipe all'azione, come ci ha abituati da sempre il mezzosoprano veronese.
Fra i tenori della serata Leonardo Cortellazzi (già ascoltato nel Don Giovanni), appare più sicuro e disinvolto rispetto al collega protagonista, ponendo in luce una spavalderia vocale di certo più marcata. Bene anche il Frère Laurent di Giorgio Giuseppini, mentre, fra gli altri, Enrico Marrucci, delinea un Capulet senz'altro migliore dello scorso anno, ma lascia perplessi un notevole difetto di dizione.
Il cast era completato con onore e professionalità da Francesco Pittari (Benvolio), Michael Bachtadze (Mercutio), Nicolò Ceriani (Pâris), Marcello Rosiello (Grégorio) e Deyan Vatchkov (Le Duc de Vérone).
Coro dell'Arena, diretto da Salvo Sgrò, offre una delle sue migliori prestazioni stagionali, con punte di eccellenza assoluta nel prologo e in una strepitosa interpretazione del finale III.
Daniel Oren è sicuramente un musicista preparato e riesce a far emergere dalla partitura preziosità e sfumature di spessore. L'impeto, cifra caratteristica del maestro, non viene mai meno, ma le sezioni sono omogenee e il tutto rientra sempre nel perimetro della disciplina e del veemente ordine. Forse risulta meno ordinato lo stesso Daniel Oren, il quale canta spesso assieme agli interpreti e incita l'orchestra a gran voce. Nonostante questo le dinamiche sono ineccepibili e il fraseggio di rara qualità espressiva. Finalmente riusciamo ad ascoltare in Arena lo splendido Entr'acte. Diciamo “finalmente” perché, accorpando i primi due atti, spesso il pubblico si alza rumorosamente, facendo perdere l'irresistibile magia della melodia di Gounod. Purtroppo per ottenere questo Oren ha dovuto esclamare un tonante “Sto aspettando il silenzio!” verso il pubblico. Mai rimprovero fu più condivisibile e auspicabile.
Le scene erano di Edoardo Sanchi, i costumi di Silvia Aymonino, le luci di Paolo Mazzon e le coreografie, brutte ma ben eseguite, di Nikos Lagousakos.
A termine grandi applausi per tutti, con autentiche ovazioni per Irina Lungu. D'altra parte chi poteva essere la trionfatrice, se non Giulietta? Giulietta nella sua Verona.
foto Ennevi