di Roberta Pedrotti
Prima un po' fiacca per Il viaggio a Reims dell'Accademia Rossiniana, nel quale non si rinnova quest'anno pienamente il bel senso di entusiasmo teatrale che spesso faceva dimenticare qualche imperfezione musicale. Emerge tuttavia il talento del soprano Ruth Iniesta, con la bacchetta di Manuel Lopez-Gomez, che però pare decisamente più versato a un repertorio più tardo.
PESARO, 14 agosto 2015 - L'Accademia Rossiniana di Pesaro è come un'azienda vitivinicola: ci sono buone e cattive annate, raccolti abbondanti o meno, vitigni di qualità che possono dare vini superbi o venir sprecati in errori di vinificazione, o viceversa vitigni mediocri elevati dall'arte enologica o da cui vengono tratti prodotti senza pretese. Ogni anno, con Il viaggio a Reims degli allievi, assaggiamo una bottiglia di novello, consapevoli che si tratta di un sorso fugace, che alcuni aromi possono svanire in fretta e che altri devono ancora maturare in cantina o effondersi all'aria. Ma il novello ha sempre un suo brio particolare che lo rende, se non eccellente, amabile.
Purtroppo, però, stappando la bottiglia di Viaggio a Reims 2015 non ritroviamo quella coinvolgente euforia che ci ha reso appetibile un assaggio di ogni annata precedente. Fuor di metafora (e perdoneranno i sommelier le semplificazioni sulle differenze fra vino nuovo e novello), nella ripresa della regia di Emilio Sagi a cura di Elisabetta Courir non si è rinnovata l'atmosfera accattivante degli scorsi anni, né ha ispirato la stessa simpatia che eravamo abituati a ritrovare. La messa in scena è sempre quella, ma nel cast, piuttosto emozionato e circospetto, è sembrata mancare la scintilla che, invece, hanno subito acceso i bimbi del Viaggetto a Reims, meritevolissimo gioco operistico per i più piccoli promosso dal Rof e che porta i partecipanti, infine, a impersonare il corteo di Carlo X, pure un bambino. Il loro stupefatto ingresso in sala è sempre commuovente, e sempre ammirevole notare le diverse personalità dei piccoli sovrani avvicendatisi: quest'anno, a dispetto della realtà storica, abbiamo avuto un Augusto regnator assai democratico, scrupolosissimo nello stringere cordialmente la mano, in platea, a quanti più “sudditi” possibile.
Possiamo poi dire di aver molto apprezzato la Madama Cortese di Ruth Iniesta, voce sana, brillante, ricca di armonici, veramente teatrale e ben impostata. Anche l'interprete pare già sufficientemente disinvolta da far ben sperare in futuri sviluppi.
Per il resto, nulla di entusiasmante: speriamo che corpo e aromi si sviluppino in futuro, perché questo primo assaggio non ci ha offerto molti stimoli, semmai la sensazione di un'annata non troppo abbondante, in cui si cerca di fra fruttare il materiale a disposizione, che non è sempre dei migliori, e quando lo è rischia di diluire troppo i suoi pregi nell'intera bottiglia.
Giuseppina Bridelli ha il merito di essersi messa in gioco, assai giovane ma già in carriera come mezzosoprano, nel ruolo sopranile di Corinna, scansando rigide catalogazioni. Senza dubbio i suoi mezzi anfibi (il dubbio che possa trattarsi di un soprano non è nuovo) ben si possono adattare alle caratteristiche di una giovane Giuditta Pasta, prima interprete del ruolo, ma il repertorio ottocentesco non la vede brillare come quello barocco e attende ancora una completa tornitura del legato.
Salome Jicia, Folleville, lascia un'impressione interlocutoria: la voce è molto estesa, anche in basso, si percepisce l'idea chiara della coloratura, ma i fiati sembrano tradirla, spezzando le frasi e senza offrire il sostegno necessario a una piena espansione e timbratura del canto. Cecilia Molinari (Melibea) ha bel colore elegante, ma voce che pare ancora un po' piccina per proiezione. Shirin Eskaldani e Kaori Nagamachi al momento non lasciano il segno come Maddalena e Modestina, mentre la Delia di Carmen Buendìa alla simpatia scenica ha accompagnato almeno una sonora puntatura (in stile? Poco importa, lo spirito è almeno giocoso) nel finale.
Il Belfiore di Sunnyboy Dladla non è parso sempre solidissimo, ma i mezzi per proseguire in uno studio fruttuoso e poi per una carriera ci sono, l'impostazione di base corretta benché in fieri. Non si può dir lo stesso di Xiang Xu, Libenskof, di gran lunga il peggiore del cast, ché a nulla vale emettere acuti (solo quelli) se son suoni così stretti, stimbrati e spinti.
Ancora in via di maturazione ma piuttosto equilibrate le voci gravi, anche se Pablo Ruiz incorre in una brutta amnesia, e conseguente perdita di concentrazione, nel bel mezzo dell'aria di Don Profondo: per rincuorarlo ricorderemo che Luca Ronconi (alla cui memoria è dedicato il Festival 2015) fu costretto a pensare a un leggìo in scena per evitare lo stesso problema a Ruggero Raimondi. Sundet Baigozhin, Sidney, ha voce promettente, anche se la vocazione non pare rossiniana. Vincenzo Nizzardo e Carlo Checchi sono, soprattutto il secondo, i più acerbi nei mezzi, ma la dizione è chiarissima, mentre Shi Zong, Prudenzio, forse di maggiori doti vocali, sconta tutto l'impaccio di chi non padroneggia la lingua ed è intimidito dal contesto. Dangelo Fernando Diaz ricopre i tre ruoli minori tenorili.
Certo, se l'emozione accresciuta dalla prima diretta video in streaming dal Rossini Opera Festival, l'inesperienza e la difficoltà nel gestire lo stress delle prove serrate possono aver inciso su spirito e resa di qualcuno più che in altre occasioni, bisogna anche riflettere sulla prova di Manuel Lòpez-Gòmez sul podio. Il giovane maestro è bravo, non c'è che dire, ha polso, tecnica, prontezza, sicurezza. Ma è poco rossiniano, il suo impeto finisce per essere più romantico e a risultare appesantito dove dovrebbe essere effervescente e surreale. Una guida salda come la sua (che non si scompone nemmeno nel momento di smarrimento di Ruiz) può essere un porto prezioso per cantanti per lo più alle prime armi, ma il rovescio della medaglia rischia in questo caso di essere un mancato stimolo espressivo e stilistico, un riferimento di precisione senza un sostegno calibrato al belcanto. Nulla, con ciò, si toglie all'interesse di una bacchetta che collocheremmo comunque volentieri in un repertorio più tardo, ma che qui appare come l'enologo esperto che sperimenta una tecnica consolidata su un vitigno inadatto: il risultato non è un cattivo vino, ma non il migliore possibile con quell'uva.
Il pubblico lo sorseggia comunque volentieri e applaude tutti i ragazzi (pur con sensate variazioni d'intensità). Un applauso che vale l'augurio di una futura visita alla cantina per nuovi assaggi più appaganti.
foto Amati Bacciardi