di Pietro Gandetto
Prosegue la stagione estiva del Teatro alla Scala con una Bohème davvero pregevole sia per il cast sia per il contributo orchestrale. Su tutti, eccellente la performance di Maria Agresta, la migliore Mimì dell’attuale panorama lirico internazionale.
MILANO, 22 agosto 2015 - Il faut vivre en bourgeois et penser en bohème, diceva Carla Bruni, citando Picasso, in un’intervista. Il motto sembra ancora calzante e, probabilmente, per fare una buona Bohème al giorno d’oggi bisogna tenerlo a mente. Eh sì, perché le Bohème troppo bohemiènnes rischiano di sconfinare nel puccinianismo sdolcinato e le Bohème troppo borghesi risultano noiose. Un giusto equilibrio è quello che hanno trovato gli interpreti della produzione andata in scena ier sera al Teatro alla Scala, con uno dei migliori cast oggi disponibili nel panorama operistico mondiale.
L’allestimento è una nuova edizione della messa in scena più vista al mondo, quella firmata da Franco Zeffirelli nel 1963, con la direzione del Maestro Herbert von Karajan e un cast composto da Mirella Freni, Gianni Raimondi, Adriana Martino e Rolando Panerai. L’idea registica sottesa a questa Bohème è ancora attuale: il sottotetto del primo atto è modesto, ma trasmette tutta l’allegria e della spensieratezza della scapigliatura d’oltralpe del demi siècle, i colori e la vivacità del Café Momus ben richiamano il fascino d’antan e l’allure che solo Parigi possiede, e le scenografie del quarto atto sono un’ottima cornice alla silenziosa morte di Mimì. Ancora oggi, dopo 52 anni, tutto è ancora ben aderente e funzionale al libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa.
Quando si affrontano questi titoli, per di più in produzioni note, è bene che gli interpreti siano sempre attenti alla ricerca di quel quis novis nel colore, nei movimenti e nell’espressione musicale, così da evitare che la tradizione degeneri in routine, e che lo spettacolo resti una copia sbiadita di quanto già visto. In questo esercizio, bene ha fatto il cast dell’altra sera.
La regina della serata è stata Maria Agresta, che ha governato il ruolo con una maturità artistica e una perizia scenica e vocale davvero straordinarie. Dotata di un patrimonio vocale di rara bellezza, la cantante lucana ha sfoggiato, con la consueta solidità tecnica, un fraseggio prezioso e raffinato. Le note scendevano come perle in un susseguirsi di piani, pianissimi, crescendo, legati e sostenuti. Formidabile la capacità di scolpire e cesellare gli innumerevoli stati d’animo di Mimì, con una modulazione musicale e interpretativa esemplari. In quest’opera, in cui le romanze non sono solo semplici arie, ma un insieme di micro-frasi e momenti musicali distinti e funzionali alla declinazione del “microcosmo-Mimì”, Maria Agresta ha fatto la differenza.
Per capire Mimì, il vero banco di prova è il quarto atto. E’ li che viene fuori tutto. Perché Mimì è la Bohème, e con la sua morte, muore il concetto stesso di bohème, intesa come giovinezza, sogno e spensieratezza. Non vi è eroina pucciniana, la cui morte assuma un significato così autentico. Mimì muore nella sua semplicità e nel suo silenzio, non perché lo voglia (come Butterfly, Liù, Tosca e, per certi versi, anche Manon), ma perché il destino se la porta via. Non a caso, quella di Mimì è l’unica morte pucciniana “senza rumore”, senza chiasso, senza melodramma. Mimì scompare e se ne va con un accordo. Questa è la magia che, grazie a Maria Agresta, ha fatto emozionare i presenti, tra i quali un signore è addirittura scoppiato in un incontenibile pianto a scena aperta.
Venendo a Rodolfo, altrettanto convincente la performance dello scoppiettante Vittorio Grigòlo. Come sempre, la voce è accattivante, luminosa e apprezzabile per colore e proiezione. Nonostante lo slancio nell’emissione sia talvolta sopra le righe, non è mancata la corretta modulazione della linea del canto e dei volumi nei passaggi più elegiaci e intimistici della partitura. Sotto il profilo attoriale, il tenore aretino – reiterando l’abituale esuberanza del gesto scenico e l’amplificazione dei sentimenti – ha dato vita a un Rodolfo coinvolgente, caratterizzato da un forte appeal visivo e da una contagiosa energia, molto apprezzate dal pubblico scaligero.
Davvero divertente il trio dei compagni di Rodolfo, Marcello (Massimo Cavalletti), Schaunard (Mattia Olivieri) e Collline (Carlo Colombara), che hanno “dialogato” con buona spigliatezza attoriale, esprimendo appieno quell mood spensierato, provocatorio e dissacrante, tipico della scapigliatura bohèmienne.
Buono il Marcello Massimo Cavalletti, uno dei baritoni italiani più apprezzati a livello internazionale. Nonostante qualche titubanza nelle note acute, la voce è sicura, di bel colore e il fraseggio è curato. Sotto il profilo scenico, il personaggio è stato reso con la giusta verve, soprattutto nelle interazioni con Musetta.
Davvero pregevole la performance del baritono modenese Mattia Olivieri, che ha dato vita a uno Schaunard frizzante e divertente. La voce è smaltata, duttile, omogenea e priva di forzature. Il giovane cantante ha confermato le sue spiccate qualità musicali e attoriali, mostrando, in questo debutto scaligero, una naturalezza sul palcoscenico tipica di molti colleghi “veterani”.
Convincente anche il Colline di Carlo Colombara. La voce è morbida, imponente e autorevole, così come la presenza scenica. L’apocalittica "Vecchia zimarra" di Colombara è stata uno dei momenti più emozionanti della recita; eseguita con la giusta vena nostalgica, funzionale alla resa dell’atmosfera del quarto atto.
Moderna la Musetta di Angel Blue. Vocalità snella nel registro acuto, ben proiettata e sempre a fuoco. Al Café Momus e nella lite con Marcello sono emersi il giusto brio e la civetteria tipici del ruolo. Un po’ più grossolana, invece, la performance della cantante nell’ultimo atto.
Divertenti e puntuali il Benoit di Davide Pellissero e l’Alcindoro di Matteo Peirone.
La direzione di Gustavo Dudamel, giovane direttore dell'orchestra nazionale del Venezuela, è stata davvero gradevole. Si è apprezzata la resa dei colori, dei rubati e dei crescendo, grazie ai quali i motivi pucciniani sono stati valorizzati con il giusto carattere. I volumi talvolta un po’ imponenti non hanno comunque impedito di godere appieno delle parti solistiche e il risultato è stato comunque un’orchestrazione omogenea ed emozionante. Nei numerosi morceaux d’ensemble, perfetta sintonia d’intenti tra gli strumenti e la linea del canto. Il valore aggiunto è stato sicuramente il contributo dell’orchestra sinfonica Simon Bolivar de Venezuela che, nell’ambito del progetto El Sistema, sta deliziando Milano con una serie di concerti. Gradevole il coro venezuelano e il coro di voci bianche del Teatro alla Scala.
A fine serata, circa 15 minuti di calorosi applausi per tutto il cast e per l’orchestra e una vera standing ovation per i due protagonisti.