di Luis Gutierrez
Una superba lettura musicale - protagonisti Cecilia Bartoli, Christopher Maltman e Rolando Villazon - si accompagna a una lettura teatrale, a cura di Moshe Leiser e Patrice Caurier, di straordinaria forza, che traduce in immagini tutta la desolazione della tragedia degli Atridi e delle sorti di Ifigenia e Oreste in Tauride. Uno spettacolo che segna nel profondo.
SALISBURGO, 19 agosto 2015 - È impossibile accostarsi a quest'opera senza riferirsi alle caratteristiche della tragedia di Euripide da cui il libretto è tratto e al tragico mito dei figli di Atreo.
Ifigenia è stata scelta dal padre, Agamennone, e contro la volontà della madre, Clitennestra, per essere sacrificata e placare, così, l'ira di Artemide, che aveva colpito la flotta greca bloccandola in Aulide. Per sciogliere la tragedia, Artemide compare come “dea ex machina” e salva la giovane trasportandola nella Tauride (l'attuale Crimea) abitata dagli sciti, popolo selvaggio e sanguinario, il cui culto prevede sacrifici umani.
In questo momento vediamo fremere due conflitti paralleli: Ifigenia non può amare un padre disposto a ucciderla pensando di fare il “bene comune” e Clitennestra comincia a odiare uno sposo che le ha tolto la figlia maggiore.
Come sappiamo, gli argivi torneranno dieci anni dopo trionfanti da Troia. Agamennone riceverà la notizia, non così sorprendente, che sua moglie Clitennnestra ha deciso di prendersi un amante, Egisto, il quale non rispetta gli altri figli del re di Micene, Oreste, Elettra e Crisotemide. Prima che la furia di Agamennone si scateni, Egisto e Clitennestra lo assassinano, scatenando un bagno di sangue quando Elettra convince il fratello a uccidere la madre e il suo amante. Le Erinni e lo spettro di Clitennestra perseguitano Oreste, immagine del rimorso per il matricidio commesso.
Il brodo di coltura rappresentato dall'ambiente selvaggio degli Sciti, dall'isolamento e dal rancore di Ifigenia, dalla colpa che perseguita il matricida Oreste non può svilupparsi scenicamente in una cornice simile a quelle che apprezzavano i nostri nonni quando andavano all'opera, certo più simili ai vecchi kolossal in costume di Hollywood.
A mio parere è del tutto ammissibile trasportare l'azione ai giorni nostri, sia nella Crimea recentemente invasa sia in qualunue altro luogo al mondo. D'altro canto, matricidio, rimorso e rancore non hanno mai abbandonato la storia dell'umanità.
Ho scritto (e soprattutto meditato) questa introduzione per indagare la ragione per la quale i registi Moshe Leiser y Patrice Caurier hanno deciso di creare questo ambiente oppressivo e squallido per l'opera di Gluck, a mio parere il suo capolavoro. Christian Fenouillat ha disegnato la scenografia: essenzialmente uno spazio che include il dormitorio delle sacerdotesse, qualche spoglio giaciglio, e l'ara sacrificale, un quadrato di tela cerata su cui si porrà la vittima affinché Ifigenia la sgozzi con un rozzo coltello, un fondale di carta marrone e piccole botole da cui appariranno le Erinni e lo spettro di Clitennestra, accusando il matricida nella quarta scena del secondo atto. I costumi di Agostino Cavalca non includono pepli o cimieri con crine di cavallo, ma sono simili a quel che si può vedere in un carcere femminile, o in un reggimento paramilitare in movimento. Le luci di Christophe Forey sono virtuosistiche durante l'apparizione delle Erinni e contribuiscono a conferire il movimento necessario a una produzione tanto essenziale.
Musicalmente si è trattato, semplicemente, di un'esecuzione gloriosa. Cecilia Bartoli, cantante che divide violentemente l'universo operistico fra seguaci e detrattori, ha realizzato un'immensa incarnazione della sacerdotessa. È emersa nei quattro momenti chiave in cui si attende Iphigénie: all'inizio dell'opera, in cui l'ouverture era sostituita da una tempesta fisica e psicologica; nel momento musicalmente culminante dell'opera, la grande aria “Ô malheureuse Iphigénie!” – la cui musica si basa su un'aria di Sesto dalla Clemenza di Tito del medesimo Gluck–; durante la sua aria del quarto atto “Je t’implore et je tremble”, seguita dal sacrificio mancato di Oreste in cui le sue qualità vocali e attoriali si sono fatte un tutt'uno.
Christopher Maltman è stato uno stupendo Oreste, probabilmente il migliore che abbia mai visto. La sua prova è superba nella terza e nella quarta scena del secondo atto, in cui canta una delle più belle arie composte da Gluck, per la capacità di delineare la follia cui lo sta trascinando il senso di colpa: “Le calme rentre dans mon coeur”, con la repentina irruzione delle Erinni e dello spettro materno, (“Vengeons et la nature et les Dieux”).
Pylade è il personaggio senza tempo dell'opera, privo di antecedenti tragici. È l'amico sincero e il compagno d'avventure di Oreste, il suo scopo dare la vita per quella dell'amico e la conseguente delusione per non poterlo fare appare bella, benché bizzarra, anche oggi. Rolando Villazón gli ha dato una vitalità decisamente unica e appassionata come attore e, soprattutto, come cantante. Le sue arie sono assai differenziate e ha fatto in modo che ciascuna avesse l'esatto senso drammatico e musicale richiesto da libretto e partitura. L'aria che conclude il terzo atto, “Divinitè des grandes âmes”, è probabilmente quella più esigente dal punto di vista vocale per il suo personaggio e Villazón l'ha gestita con un'interpretazione di grande bellezza – dato soggettivo –, e un'intonazione, un controllo dinamico e agogico tali e quali a quanto indicato da Gluck – dati oggettivi.
Michael Kraus (Thoas) è stato all'altezza del contesto, imprimendo un tono minaccioso alla sua parte, come deve essere. Diana è stata, per citare un collega tedesco, il contrappunto scenico rispetto al resto della produzione. Rebeca Olvera, che l'ha interpretata, è apparsa dal fondo della scena vestita e truccata tutta in oro, parrucca, scarpe e guanti compresi; la sua parte è breve ma l'ha cantata assai bene – se la “dea ex machina” non lo fa, la recita perde gran parte della sua forza – e la sua recitazione è stata assai accattivante, sedendosi alla fine del suo grande recitativo sul bordo della buca dell'orchestra, sì da mostrare tutta la noia degli dei verso le questioni umane che si vanno concludendo. Questo è uno dei casi in cui si conferma che nell'opera anche i personaggi secondari sono fondamentali per l'esito di una buona rappresentazione.
Il Coro della Radiotelevisione Svizzera ha offerto una prova d'alto livello, come, ovviamente, le interpreti delle sacerdotesse compagne di Iphigénie (Laura Antonaz, Elena Carzaniga, Mya Fracassini, Caroline Germond, Elisabeth Gillming, Marcelle Jauretche, Francesca Lanza, Silvia Piccollo, Nadia Ragni, Brigitte Ravenel ) e gli artisti impegnati nei brevi interventi di uno Scita (Marco Saccardin), un Ministro (Walter Testolin) e una Donna greca (Rosa Bove).
Diego Fasolis ha diretto in maniera brillante il complesso storicamente informato I Barocchisti, arricchito da membri della Camerata Salzburg per ottenere le sonorità richieste dalla partitura.
Ho lasciato il teatro diverso da come ero entrato, cosa che dovrebbe sempre accadere quando si assiste a un'opera. Posso azzardarmi a dire che non avevo visto finora una produzione tanto “brutta”, e nello stesso tempo anche di non poterne immaginare una migliore per l'Iphigénie en Tauride.
© Salzburger Festspiele / Monika Rittershaus