di Gustavo Gabriel Otero
Le colonne dorate dalle basi consunte che circondano la scena possono essere la metafora di un Don Carlo in cui la compagnia di canto eccelle nelle parti di fianco a fronte di protagonisti periclitanti, in cui la messa in scena appare monumentale e sfarzosa, ma assai povera, di contro, nella reale cura di recitazione e teatro.
BUENOS AIRES, 23 settembre 2015 - Dopo undici anni è tornato sulle scene del Teatro Colón ilDon Carlo di Verdi, in una produzione degna per quanto non memorabile.
Il versante scenico era affidato a Eugenio Zanetti, che ha disegnato costumi suntuosi, realizzati con altissima qualità dalla sartoria del teatro, un impianto magniloquente e movimenti di routine, scenografici senza esser precisi o ricercati nella cura attoriale e teatrale. Una opzione estetica che sortisce un collaudato effetto su buona parte del pubblico del Colón, opinionisti vari e alcuni giornalisti locali.
La grande scenografia è incorniciata da otto maestose colonne – quattro fisse e quattro movbili, montate sul piano girevole del palco – ricoperte d'oro, abbastanza lontane dallo stile austero imposto da Filippo II. Ciascuna colonna poggia su una base usurata, a suggerire una “decadenza” presente solo nella mente di Zanetti, giacché non è insinuata né dal testo né si accorda con la verità storica. Completano la scena rempe di scale e un uso costante del piano girevole per cabiar scena anche nell'ambito del medesimo quadro, senza necessità alcuna. Inoltre appaiono una grande mano, un cuore rosso e un uovo gigantesco, tre elementi di pessimo gusto, un incensario ciclopico e un enorme Cristo.
Molto buono il lavoro di Eli Sirlin con le luci e rinunciabili le proiezioni di Abelardo Zanetti, che talora riuscivano moleste, soprattutto la reiterata apparizione del Giardino delle delizie.
Per quanto concerne la regia propriamente detta, Zanetti sembra prestare scarsa attenzione al lavoro teatrale e attoriale. Le idee di fasto e degrado paiono essere le uniche, lasciando, per il resto, gli interpreti al loro destino e quasi sempre fissi al pubblico senza alcuna azione o interazione. L'ovazione finale tributatagli permette di constatare come questa estetica guasta e kitsch, piena di figuranti, cani, nani e poco teatro, è quella che più piace al pubblico intellettualmente invecchiato del Colón.
La Orquesta Estable sotto la direzione di Ira Levin si unisce in una lettura dettagliata e corretta della partitura, cui talora manca l'involo, in altri momenti eccede l'intensità, mentre il Coro assolve efficacemente al suo compito.
La compagnia di canto altarna costituisce la maggior debolezza della produzione. Forse si è posta più attenzione nella scelta delle parti di fianco che per i ruoli principali, come sembra deducibile dalle prestazioni eccellenti di Rocío Giordano (Tebaldo), Iván Maier (Conte di Lerma), Darío Leoncini (Araldo) e Marisú Pavón (Voce dal Cielo), incoerenti rispetto alla povertà di risultati generali nei ruoli più importanti.
Esclusi i già citati comprimari, le voci migliori sono quelle di Fabián Veloz (Posa) e Alexander Vinogradov (Filippo II). Veloz è l'evidente trionfatore cper il colore vocale, l'espressione, il volume e la linea verdiana. Di contro, Vinogradov è assolutamente attendibile nei panni regali per estensione, bel timbro e adeguata proiezione.
Quale protagonista José Bros mostra voce leggera e lirica lontana dalle esigenze del ruolo. A suo favore possiamo dire che era stato chiamato all'improvviso per la cancellazione di Ramón Vargas. Bros è un professionista serio e lo dimostra durante la rapresentazione nonostante non sia un ruolo per la sua vocalità e meno ancora in un teatro delle dimensioni del Colón. Apparentemente sofferente di un problema di salute nel corso del secondo atto, conclude in ogni caso la recita al limite delle sue possibilità, senza brillare ma nemmeno soccombere.
Tamar Iveri non è in grado di infondere al canto la qualità necessaria per Elisabetta, ruolo che pare estraneo alle odierne possibilità del soprano. Alcune frasi non sono udibili, altre paiono anodine, solo poche davvero molto buone.
Si colloca in un'aurea mediocritas la prestazione di Béatrice Uria Monzon come Eboli. Senza decollare assolve alle esigenze della parte. Si tratta di un'onesta artista con una linea di canto intrigante, chiamata all'ultimo momento a sostituire l'annunciata Violeta Urmana.
Con problemi di emissioneLucas Debevec Mayerè un pallido Monaco, con difficoltà di tessitura, ingolato e di volume insufficiente. La scrittura diAlexei Tanovitski (Grande Inquisitore) non può essere in alcun modo giustificata, tenendo conto della sua misera, inudibile prestazione.
foto Prensa Teatro Colón/Máximo Parpagnoli