di Luis Gutierrez
Nuovo allestimento di Bartlett Sher per l'inaugurazione della stagione 2015-16 del Metroplitan di New York con l'Otello verdiano, fra buoni effetti visivi, fraintendimenti e mancanza di vere idee. Su tutti brilla la Desdemona splendida di Sonya Yoncheva, in felice contrasto con la pura malvagità dell'efficace Jago di Željko Lučić. Aleksandrs Antonenko è un Otello efficiente, ottimi i comprimari e la concertazione di Yannik Nézet-Seguin.
NEW YORK, 2 ottobre 2015 - Tanto Otello, opera di Verdi, come Othello, tragedia di Shakespeare, sono parte indiscutibile della colonna portante dell'arte universale. Per questo, una nuova produzione dell'opera è un evento di grande importanza, specialmente quando si tratta dell'inaugurazione della stagione del Met.
Normalmente il Met apre il suo cartellone con una produzione che coinvolga stelle di grande richiamo, che garantiscano critica favorevole e un gran successo al botteghino.
Devo riconoscere che questa volta Peter Gelb ha scelto di prescindere dalle sue star: si può immaginare lo Jago d Hvorostovsky nel suo stato di salute attuale? Di certo non ha rinunciato al suo regista fetiche, Bartlett Sher, al quale non comprendo perché si conferisca l'importanza che, per esempio, ha avuto uno Shenck.
Sher si è allineato alla moda di trasporre l'epoca dell'opera dallo splendore della Serenissima a un grigiore cipriota del XIX secolo, o era forse la Norvegia? Indubbiamente è un'opera d'arte universale, ma il linguaggio verbale e musicale è proprio di un determinato momento, valido in un luogo e in un'epoca, ma non facilmente ricollocabile altrove.
Pochi titoli possono vantare un incipit eclatante come quello di Otello, collocato con precisione spaziale e temporale, benché non sia mancato chi osasse trasferire l'azione ad Aleppo nei nostri giorni, per esempio, per via di “L’orgoglio musulmano sepolto è in mar. Nostra e del ciel è gloria”. L'uso di proiezioni da dietro il velario e le luci molto illustrative ideate da Luke Has e Donald Holder sottolineano tutta l'energia selvaggia che può avere una tempesta. Questa scena è stata molto ben realizzata e ha acceso un raggio di speranza perché Sher ci offrisse qualcosa di importante nel corso della serata.
Invece no, nella scena seguente, l'unica brillante dell'opera, un gruppo di norvegesi luterane vestite in cinquanta sfumature di grigio si incaricano di offuscare il piacere mediterraneo di “Fuoco di gioia!”.
La scenografa, Es Devlin, ha conseguito un risultato molto accattivante con pannelli che parevano di cristallo traslucido e attraverso i quali non solo si muovono i cantanti durante l'opera, ma anche si suggerisce giustamente il sorgere della gelosia di Otello.
Il costume di Otello è quello di un comandante dell'esercito del XIX secolo, abito nero con spalline, con gli altri personaggi come ufficiali di minor grado in grigio con tocchi viola. Sono convinto dell'alta qualità della costumista, Catherine Zuber, giacché ha realizzato spettacolari abiti per Desdemona e anche per Emilia, meno eleganti ma pure molto belli. Naturalmente Desdemona si cambia in ogni atto: è in bianco nel primo, beige nel secondo, rosso fiammante nel terzo e infine in camicia da notte e vestaglia di raso.
Personalmente non vedo ragione alcuna per sostituire la produzione di Elijah Moshinsky, molto bella ed efficiente, a meno che il signor dirigente non preferisca intervenire sulle finanze del teatro solo con tagli; di certo bisogna investire, gettar denaro dalla finestra perché entri moltiplicato dalla porta, ma raramente questo principio ha avuto successo nel decennio della presente amministrazione e sarà lo stesso con questa produzione.
Prima di passare al discorso musicale devo parlare dell'etnia di Otello, che tanto scalpore ha destato per la scelta di presentarlo come un uomo bianco, bianco come un lettone. Il testo allude molte volte al colore scuro della pelle del Moro di Venezia, incluso il doloroso lamento per essere venuto a disgusto a Desdemona a causa del suo colore. Nel caso del Met, come di molti teatri anglosassoni, la “political correctness” è dannosa e distorce l'idea originale. In Die Zauberflöte soprattutto si tagliano parlati che possano considerarsi offensivi, in Un ballo in maschera, si evita “dell’immondo sangue de’ negri”, ricorrendo alla variante della versione svedese, ma mantenendo i nomi di quella americana. Il punto è che Otello è differente rispetto agli altri, e non solo differente, è migliore di molti: in poche parole è un meteco fra ateniesi, un forestiero senza diritto di cittadinanza, perché il colore del suo volto, che rappresenta la sua etnia, è quello e negarlo fa solo pensare a una ulteriore discriminazione razziale.
Musicalmente, a mio parere, le cose sono andate meglio. Aleksandrs Antonenko è uno dei pochi tenori drammatici che possano cantare il ruolo, benché i suoi acuti si sentano un tantino forzati. La recitazione è stata, con tutta probabilità, la peggiore dell'intera compagnia giacché era patente che fingesse in ogni momento, specialmente nelle convulsioni o anche nel bacio con Desdemona nel primo atto. L'entrata di Otello cantando a piena voce “Esultate!” è, probabilmente, la presentazione di maggior impatto di sempre per un personaggio d'opera. Antonenko l'ha resa bene, semplicemente bene. I suoi altri interventi sono stati parimenti buoni, ma senza lasciare nessun ricordo indelebile.
Željko Lučić è stato uno Jago minaccioso tanto nella voce quanto nella recitazione. A differenza di Antonenko, la sua voce è bella e capace di rimanerlo in tutta l'estensione della parte. Credo che sia molto difficile oggi trovare molti baritoni in grado di restituire uno Jago tanto malvagio. Il modo in cui ha cantato “Credo in un Dio crudel che m’ha creato” mi ha provocato brividi di emozione e paura. E non mi avrebbe stupito vederlo premere il piede sul volto di Otello svenuto esclamando “Ecco il Leone!”.
La trionfatrice di questa serata è stata Sonya Yoncheva, in tutto e per tutto una Desdemona indimenticabile. Non ho dovuto attendere molto per apprezzare questa voce bellissima e potente, che con fraseggio sublime ha cercato di placare il Moro per terminare con un semplice “Otello!” in risposta a “Vien… Venere splende”, su quel tema musicale che inizia il suo volo come un arco da questo bacio per terminare tragicamente al finale, con il bacio estremo che chiude idealmente la frase alla morte di Otello. La Yoncheva ha brillato in ogni momento con la sua voce e la sua presenza scenica (nel terzo atto era davvero splendida nel suo abito rosso fuoco), ma c'è stato anche di meglio. La sua Canzone del salice è stata semplicemente perfetta, non mi avrebbe disturbato se fosse durata altri dieci minuti. La Yoncheva è convinta che “chi non lega, non canta”, e infatti il suo legato è stato perfetto. Questo è stato l'unico momento in cui in sala abbiamo rotto la magia della musica per applaudire una grande cantante, impossibile non farlo. Poi mancava solo l'Ave Maria, pure perfetta, prima di cedere il passo al finale fino all'ultimo, significativo assolo di Otello “Niun mi tema”, totalmente sconfitto da se stesso, per la sua diversità e l'essersi lasciato distrubbere pezzo per pezzo da un veneziano come Jago. Spero di tornare ad assistere a molte altre performance di Sonya Yoncheva.
Dimitri Pittas ha dato vita a un eccezionale Cassio, come Jennifer Johnson Cano, che ha impreziosito il suo costume con una bella interpretazione di Emilia. Günther Groissböck, in divisa militare del più alto grado e dandoci un assaggio della sua voce nel piccolo ma importante ruolo di Lodovico, è stato uno di quei lussi che solo i grandi teatri d'opera possono offrire. Personalmente ho bisogno di un Montano imponente che apra l'opera esclamando con chiarezza e volume “È l’alato leon” sul fortissimo orchestrale, e Jeff Mattsey lo è stato. Chad Shelton e Taylor Duncan hanno cantato adeguatamente Roderigo e l'Araldo della Serenissima.
Yannick Nézet–Séguin ha diretto splendidamente la parimenti splendida orchestra del Met. Capace di imprimere il carattere selvaggio della natura, lo sviluppo musicale della gelosia di Otello, la dolce soavità di Desdemona e quella subdola di Jago, senza perdere di vista l'altezza drammatica e musicale complessiva di questa meravigliosa opera. Il coro, diretto come sempre da Donald Palumbo, ha offerto una prova eccellente in quest'opera nella quale il suo intervento è fondamentale.
A mio parere questa produzione di Sher non offre una nuova chiave di lettura ma in ogni caso, anche con la sua carenza di idee e con qualche fraintendimento, tornerei a un'altra recita, sempre che la Yoncheva interpreti Desdemona e Lučić Jago. Resto con una domanda: non ci sono cantanti italiani che affrontino questi ruoli? Ricordo Lucio Gallo come grande Jago e la Frittoli come convincente Desdemona. Tutti sappiamo che gli Otelli non si incontrano a ogni angolo di strada, ma speriamo di trovarne uno grande nel prossimo futuro, italiano o meno.