di Joseph Calanca
All’Opera di Firenze va in scena l’atto unico di Marco Tutino tratto dal capolavoro di Sándor Márai. Notevole la sintesi del romanzo messa in atto dal libretto, meno convincente l’epilogo soprannaturale con cui il compositore torinese sceglie di concludere questo celebre racconto di amicizia e tradimento.
Firenze, 9 novembre 2015 - Quarantun anni e quarantatre giorni. Chiuso nel suo castello ai piedi dei Carpazi, il vecchio generarle Henrik non ha mai smesso di misurare il trascorrere del tempo e di porsi le stesse, assillanti domande. Era il 2 luglio 1899 e durante una battuta di caccia Konrad, l’amico più fidato (i due erano “come gemelli nell’utero materno”, scrive l’autore), ha tentato di ucciderlo per poi sparire per sempre. Una scomparsa dalle conseguenze enormi anche nel rapporto tra Henrik e la moglie Kristina che, proprio da quel fatidico giorno, troncherà ogni rapporto col marito per poi morire in solitudine otto anni più tardi. L’attesa è finalmente terminata: Konrad è tornato ed è il momento di pretendere una risposta alle domande rimaste in sospeso per quei lunghissimi quarantun anni e quarantatre giorni.
Pubblicato in ungherese nel 1942 e in italiano solo nel 1998, nove anni dopo il suicidio del suo autore, Le braci è unanimemente considerato il capolavoro di Sándor Márai, letto, consigliato, regalato da milioni di lettori e giunto, solo nel nostro paese e tralasciando le ristampe economiche, alla sua trentanovesima edizione. Un romanzo di grande fascino e superba eleganza, per la sua stessa struttura difficilmente immaginabile al di fuori dell’intima dimensione cartacea. Si tratta infatti, in massima parte, di un lungo soliloquio intervallato da flashback e dai rari interventi degli altri protagonisti. Davvero notevole appare quindi il libretto di Marco Tutino che riesce a condensare la vicenda in un fluire ininterrotto di scene in cui passato e presente si fondono senza nessuna consequenzialità cronologica, proprio come accade ai ricordi. Un encomiabile rispetto della fonte letteraria che viene però inaspettatamente tradito nel finale. Il romanzo si concluderebbe infatti, come ricorda Ultime braci, il monologo per voce recitante e orchestra affidato al prepotente accento tarantino di Leo Muscato ed eseguito per la prima volta in occasione di queste recite fiorentine, con un austero commiato dei due protagonisti “in silenzio, con una stretta di mano e un inchino profondo”. Tutino sceglie invece la strada un po’ grossier del colpo di scena finale, che tanto stride con la misurata poetica di Márai. A Nini, l’amorevole balia di Konrad ora governante della castello, è affidato il compito di svelare la verità all’incredulo padrone: “Siamo tutti morti”. Come nel film The Others, ai personaggi quindi non resta altro che prendere coscienza della propria identità e ribadire in un insistente sestetto finale: “Siamo tutti fantasmi…”
Se lasciano qualche dubbio le capacità attoriali sfoderate da Leo Muscato nel melologo che apre lo spettacolo, è invece promosso a pieni voti in qualità di creatore di questo allestimento coprodotto con il Festival della Valle d’Itria, dove ha debuttato la scorsa estate [Leggi la recensione]. Una bellissima scena fissa firmata da Tiziano Santi e meravigliosamente illuminata da Alessandro Verazzi riproduce il sontuoso castello di Konrad e il bosco che lo circonda, dove avvenne la fatidica battuta di caccia. Ma non essendo il tempo galantuomo nemmeno con gli edifici, di quella sontuosa dimora dopo quarantatre anni non resta che un stanza in cui, tra carta da parati in brandelli e specchi ossidati, continuano ad ardere, come le brucianti domande ancora senza risposta, le braci del caminetto.
In questo universo decadente giganteggia Roberto Scandiuzzi, in scena dalla prima all’ultima battuta. La sua autoritaria voce di basso unita al fiero portamento, incarna perfettamente il rigido temperamento di Henrik, ancor più aggravato dal tradimento della moglie e dell’amico. Al suo fianco si muove con altrettanta esemplarità Alfonso Antoniozzi, a cui dopo tanti anni di carriera si perdona volentieri una sottile perdita di smalto vocale compensata dalla notevole padronanza scenica con cui riesce a tratteggiare l’introverso e sensibile Konrad. Angela Nisi, nei bianchi costumi disegnati da Silvia Aymonino, risolve con freschezza vocale e intensità d’espressione la parte di Kristina, colei che divide i due uomini. Si disimpegnano poi con valore l’amorevole Nini di Romina Tomasoni e il Giovane Henrik di Kristian Lindroos mentre Davide Giusti (il Giovane Konrad) sembra non essersi ripreso completamente dalla tracheite che l’ha colpito alla vigilia della prima.
Guidata da Francesco Cilluffo, l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino si muove con maestria attraverso questa musica che, con l’accattivante ruffianeria di una colonna sonora, cerca di evocare il fascino della Mitteleuropa di inizio Novecento riecheggiando le pagine di Mahler, Zemlinsky e soprattutto Strauss (le inquietudini di Richard ma anche gli smaglianti valzer dei due Johann). Una scrittura schiettamente melodica per raccontare dell’amicizia di due uomini, “seria e silenziosa come tutti i grandi sentimenti destinati a durare una vita intera.” O forse anche di più.