di Roberta Pedrotti
Incredibile dictu, l'Elektra di Strauss e non era mai stata rappresentata in lingua originale a Bologna prima d'oggi e anche in italiano si conta un unico precedente nel 1969. Il debutto è stato degnamento celebrato grazie all'ottima concertazione di Lothar Zagrosek e all'efficace messa in scena di Guy Joonsen, coprodotta con Bruxelles e Barcellona, che hanno saputo evidenziare la modernità universale della riflessione su vendetta, violenza e diritto.
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BOLOGNA 15 novembre 2015 - Prima dell'inizio dello spettacolo il sovrintendente Nicola Sani compare in proscenio per leggere un messaggio di cordoglio da parte di tutto il Teatro Comunale e degli artisti coinvolti della produzione per le vittime dei terribili atti di terrorismo e di guerra perpetrati in questi giorni in tutto il mondo, citando espressamente Parigi, il Libano e il Kenya. Dopo il doveroso minuto di silenzio nulla più dell'epilogo sanguinoso della tragedia degli Atridi potrà esprimere degnamente la tragedia dei giorni nostri, metafora perfetta di una spirale di sangue che alimenta se stessa nella logica perversa della catena di vendette che solo il passaggio a uno stato di diritto può interrompere.
Tantalo inganna gli dei e fa a pezzi il figlioletto Pelope, questi, resuscitato per divina misericordia, inganna e uccide l'auriga Mirtilo, figlio di Hermes. Fra i pelopidi Atreo e Tieste, assassini del terzo fratello, si apre una contesa dinastica in un parossismo di tradimento, incesto, infanticidio, cannibalismo; sopravvissuti gli atridi Agamennone e Menelao sposano le due figlie del re di Micene, Clitennestra ed Elena, ereditando infine l'uno il trono del padre, l'altro quello del suocero. Un altro tradimento, un'altra guerra in cui l'onore mitologico maschererà le storiche ragioni economiche, e Agamennone per permettere alle sue navi di partire alla volta di Troia deve espiare un torto recato ad Artemide con il sacrificio della figlia Ifigenia, istigando così nella maternità ferita di Clitennestra la migliore complice per la vendetta del cugino Egisto. Il massacro del re tornato vincitore da Troia viene vendicato dai figli superstiti, ma a prezzo, per l'esecutore materiale Oreste, della follia e della persecuzione delle Erinni. Solo l'assoluzione dal matricidio sentenziata dal tribunale ateniese dell'Areopago pone fine al delirio sanguinario che ha sovvertito nella violenza ogni possibile diritto naturale e civile. Sangue chiama sangue, vendetta chiama vendetta, solo lo stato di diritto può infrangere questo meccanismo selvaggio, decretare il passaggio dalla civiltà della vergogna a quella della colpa, dall'onore alla responsabilità e alla legge. Da qui conseguirà anche l'assurdità della pena di morte, che appaga la logica istintiva dell'occhio per occhio dente per dente, non la logica di una legalità che condanna e ripudia ogni omicidio.
Questo è il nodo - o, almeno, un nodo - dell'Orestea di Eschilo, l'unica trilogia giuntaci completa, ma per quanto concerne il matricidio tributato al padre assassinato ben poco cambia nell'Elettra sofoclea, vera fonte primaria di Hofmannsthal per il dramma musicato da Strauss. Questo il nodo che rende il mito metafora sempre contemporanea, che fa dell'Elektra opera sempre di sconcertante attualità, vuoi per il magma psicologico sotteso ai tre personaggi femminili principali, vuoi, appunto, per l'universalità politica del tema della violenza e dell'ossessione inesauribile della vendetta. E il regista Guy Joonsten (con lo scenografo e costumista Patrick Kinmonth e le luci di Manfred Voss) dà perfettamente forma a questi temi enfatizzando più che una titanica mostruosità, l'umana banalità di un male che ha corroso nel profondo i corpi e le anime. Lo leggiamo nello sguardo dello stesso Orest, che, pur giunto a Micene con il reciso proposito di uccidere gli assassini di Agamennone, sembra disorientato di fronte agli atteggiamenti della sorella, che prima ancora di sfiorarlo nel saluto gli mostra orgogliosa la scure fatale che aveva conservato, tenta poi di lavagli i piedi e di asciugarli con le sue chiome, con gesto di evangelica devozione (d'altra parte l'attesa del fratello vendicatore e liberatore, dell'uomo che succeda nella casa al padre può ben assumere toni messianici). Lo leggiamo nel dialogo fra Elektra e Klytämnestra, fatto di sottintesi e sotterranea comprensione più che di aperta e isterica ostilità. Lo leggiamo in quella reggia in cui le tre donne sono prigioniere di sé stesse, della catena dell'onore e della vendetta, in cui Aegisth non è che una tronfia macchietta in divisa che pare uscita da un quadro di Grosz, in cui tutto è controllato dalle ancelle, onnipotenti e onnipresenti metafore di uno stato di terrore cui è impossibile sottrarsi, alcune spietate kapò in divisa, altre infermiere pronte a imbottire la fragile regina di pillole, solo una, la quinta (Eva Oltiványi), animata da un raggio di speranza, di solidarietà femminile, timida fedele di Elektra e per questo oggetto di abusi da parte delle guardiane. In quella reggia squallida, spogliata, abbandonata all'esterno, fortificata alla meno peggio, nel cui cortile è concesso uno spazio di passato, un lettino (freudiano? Lo è chiaramente nel momento in cui Klytämnestra chiede ragione dei suoi sogni) e una tenda di porpora, vestigia del tempo del padre, del tempo di Agamemnon, tempio dell'ossessione di Elektra dato alle fiamme nel momento in cui il sangue la illude di una nuova vita. Ma quel che si schiude è un interno fastoso in bianco marmo neoclassico in cui cadaveri sanguinanti sono accatastati disordinatamente l'uno sull'altro, orrida carneficina sulla quale, dopo l'ultimo walzer e l'ultimo bacio al fratello/padre/salvatore/amante, anche Elektra si accascia. Ora, vendicato Agamemnon, non ha più uno scopo. la morte non ha generato che morte e non resta altro che sangue, silenzio, corpi straziati.
La scena va di pari passo con la concertazione notevolissima di Lothar Zagrosek cui va il merito di aver innanzitutto guidato con mano ferma e sapiente un'orchestra (ampliata per l'occasione con parecchi aggiunti) che mai aveva suonato quest'opera, giacché – incredibile dictu – Elektra veniva presentata per la prima volta nella storia in versione originale tedesca a Bologna, con l'unico precedente in traduzione italiana risalente al 1969. Non si è però limitato a far quadrare i conti delle esigenze tecniche straussiane, ma ha gestito con grande abilità il crescendo drammatico, sì che la densità della scrittura non si è mai fatta mera e granitica violenza espressionista, bensì prisma di un'umana complessità che si rivela nel lirismo, nella sensualità, nel dolore, perfino nell'ironia. Così, quando il finale più che ebbro di dionisiaco furore appare duro e crudele, esso assume una forza formidabile, in perfetto, agghiacciante accordo con l'azione, con l'idea soffocante di una spirale di sangue che può culminare solo in un totale annientamento senz'ombra di speranza.
Le doti plastiche e poetiche di Zagosek, peraltro, favoriscono un cast in cui si fa valere l'intelligenza di Elena Nebera, capace di mettere a frutto anche gli spigoli di un vibrato invadente per esprimere il disturbo interiore di Elektra. Non stiamo parlando di una cantante vocalmente ineccepibile, ma non è cosa da poco venire a capo di una parte massacrante come questa senza soccombere fra grida e forzature, mantenendo sempre un buon controllo dell'emissione, consapevole e non scomposta quantunque talora eterodossa. Allo stesso modo emerge Natascha Petrinsky come Klytämnestra forse non memorabile nel canto, ma di gran classe per azione, interpretazione, modo di porgere e di aderire a un'impostazione registica accurata e mai sopra le righe. Anna Gabler completa il trittico femminile con una Chrysothemis dolcemente femminile, ma più inquieta e meno remissiva, in una parola più complessa di quanto si possa essere abituati a immaginare. Si fa apprezzare anche la nutrita schiera servile muliebre composta da Alena Sautier, Eleonora Contucci, Paola Francesca Natale, Constance Heller, Daniela Denschlag e dalla citata Eva Oltiványi.
Il ristretto versante maschile è dominato dall'ottimo Orest di Thomas Hall, cantante felicemente noto a Bologna (già Holländer e Scarpia nelle scorse stagioni) soprattutto per il repertorio tedesco, affrontato con voce timbrata, accento appropriato e recitazione ben calibrata. Jan Vacik, da parte sua, è un degno contraltare come Aegisth, militare grassoccio e arrogante che centra il bersaglio della satira e del grottesco sinistro. Luca Gallo riunisce in sé con pacatezza il precettore di Oreste e il vecchio servitore, Carlo Putelli è, per contrasto, un nervoso giovane servitore. Il coro canta poco assai, ma il parossismo destato dalla morte di Aegisth è di solenne impatto drammatico, grazie soprattutto alle cupe mura tonanti innalzate in quel frangente da Zagrosek.
Alla prima lo spettacolo piace, e certo il pubblico avrà modo di scaldarsi vieppiù con le repliche. Se non fosse per alcune davvero incomprensibili contestazioni al direttore e per una beata indifferenza all'uscita della valida squadra registica, un'ottima e incoraggiante accoglienza complessiva per questo vero e proprio, atteso e graditissimo, debutto bolognese di Elektra.
foto Rocco Casaluci e Renato Morselli