di Roberta Pedrotti
Convince anche la seconda compagnia dell'Elektra al Comunale di Bologna, sia per l'omogeneità del cast, sia per gli stimoli continui provenienti dalla concertazione raffinata di Lothar Zagrosek e dall'intelligente regia di Guy Joosten.
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BOLOGNA, 17 novembre 2015 - Cambiare i due soprani nell'Elektra vuol dire cambiare un buon ottanta per cento di quel che concerne l'interpretazione vocale, ché, in definitiva solo la scena iniziale delle ancelle rimane invariata; è dunque d'interesse non indifferente tornare al Comunale per la seconda recita dell'opera di Richard Strauss, in scena, questa volta, Elizabeth Blanke-Biggs come protagonista e Sabina von Walther quale Chrisothemis.
Ne è valsa la pena, diciamolo subito, constatando la sostanziale omogeneità di resa, pur con diverse personalità. Come Elena Nebera, la Blanke-Biggs ha qualche asperità nella voce, che nel ruolo non dispiace, e tende, anche a costo di qualche suono ingolato comunque meno sistematico rispetto alla collega, a un timbro scuro parimenti assai efficace. Se la Nebera garantiva una tenuta costante dall'inizio alla fine con un paio d'incrinature, comunque non compromettenti, in corso d'opera, la Blancke-Biggs non inciampa, ma pare un po' più stanca nel – massacrante – finale; la sua interpretazione è parsa, però, maggiormente illuminata da intuizioni interpretative, con alcuni guizzi artistici interessanti.
La von Walther, da parte sua, ha saputo tratteggiare un personaggio vibrante nella sua delicatezza, nel suo anelito di normalità senza speranza, con una freschezza fanciullesca che prende corpo da un'evanescenza infantile fino all'attonita consapevolezza di fronte al precipitare della tragedia.
Ne è valsa la pena anche perché tutti gli interpreti già ascoltati alla prima hanno offerto prove ancor più convincenti, in particolare la Klytämnestra recitata con elegante sottigliezza da Natascha Petrinsky e l'introverso Orest, Messia quasi suo malgrado, senza possibilità di scelta o introspezione, di Thomas Hall.
Ne è valsa la pena perché non si finirebbe mai di scandagliare gli abissi e i meandri del capolavoro di Strauss, Hofmannsthal, Sofocle. In questo senso a un secondo ascolto la concertazione di Lothar Zagrosek appare ancor più fine, morbidamente insinuante, quasi a suggerire che non vi sia, in realtà, quella frattura violenta fra il mondo di Salome ed Elektra e quello di Der Rosenkavalier. È lo stesso l'aroma malinconico della fine di un tempo, di una malattia profonda e insanabile, di una crisi che si annida insidiosa e inesorabile nei tempi di danza, nell'esplorazione della psiche, nel fiorire della letteratura, della filologia, delle arti; cambia lo sviluppo, l'esito nella nostalgia della commedia perduta o nella perversione e nel sangue, ma il principio è il medesimo. Per questo ancor più agghiacciante nelle sfumature di una serpentina liricizzazione e nel calibro vieppiù rifinito di un finale in cui precipita tutto l'orrore e il rigore della catastrofe tragica, crudele e spietata, disumanizzata e improvvisamente dissolta in un vuoto in cui risuonano solo, a mo' di sigillo, gli accordi del leitmotiv di Agamemnon, quasi avesse finto - subdolo! - di addomesticarsi presentandosi nel canto per poi troneggiare solitario nello sconcerto, nella morte e nella desolazione.
La crisi di un'epoca è un'altra faccia della medaglia del bell'allestimento di Guy Joosten, che come ogni allestimenti intelligente rivela nuovi aspetti ad ogni visione e non cessa di far pensare. Per esempio al pericoloso crinale che porta alla degradazione della società verso il regime e la violenza. Il nido di Elektra, con la dormeuse in Jugendstil, la tenda di porpora, il libro, lo specchio, non è solo il tempio della memoria di Agamemnon, ma anche del fiorire intellettuale della Vienna al crepuscolo dell'Impero austroungarico, o dell'effimera Repubblica di Weimar in Germania, di un passato prezioso cui ci si aggrappa senza riuscire a farlo rifiorire. Klytämnestra vive in un regime militare, privata d'ogni libertà, succube delle ancelle e del grottesco compagno, ma continua a vestirsi come in un quadro di Klimt e a volersi illudere dell'esistenza di un mondo infranto; Elektra vede quel che è divenuta la reggia, la società, ma non sa guardare avanti e ragiona solo secondo i meccanismi della vendetta dell'onore, gli stessi di cui Orest si rende fatalmente, meccanicamente strumento e Messia. La congiura di palazzo, senza prospettive, porta solo sangue nel sangue. Elektra si libera dello stato ferino in cui era precipitata abbigliandosi, truccandosi, acconciandosi secondo la moda della Secessione, ma brucia il libro e le vestigia del passato, brucia la memoria che per lei era solo strumento e stimolo alla vendetta, e non le resta che spegnersi nella carneficina. I riferimenti alla storia del secolo scorso non mancano, ma filtrati si da non essere mascheramento e illustrazione, ma da conservare una loro universale validità.
Uno spettacolo che non ci si stanca di vedere, a dimostrazione che i teatri italiani, anche senza scomodare i massimi nomi (come non pensare alle inarrivabili recite scaligere di un anno e mezzo fa? Milano, Elektra, 24/05/2014) sanno rendere giustizia a un repertorio che non cessa di parlare al nostro tempo. Poco importa se alla recita del 17 novembre (turno A) l'accoglienza non sia stata caldissima: per gli eleganti e distrattamente borbottanti signori di mezza età seduti dietro di noi in platea c'era anche una coppia di giovani (evidentemente allettati dalle offerte per studenti) che dopo un iniziale spaesamente e qualche occhiata al cellulare sono arrivati al finale con il fiato sospeso e l'occhio fisso alla scena. Speriamo sia un buon inizio.
foto Rocco Casaluci