di Roberta Pedrotti
Il Progetto Opera Barocca del Regio di Torino porta in scena un'edizione musicalmente notevolissima del capolavoro di Henry Purcell, sostenuta da un Federico Maria Sardelli garanzia di qualità esecutiva e perfetta adesione all'ambiguità barocca della partitura. Non altrettanto convincente la messa in scena, nata per l'Opéra di Rouen, di Cécile Roussat e Julien Lubek.
TORINO 28 novembre 2015 - In Italia, purtroppo, il repertorio barocco fatica ancora a uscire stabilmente dai soli circuiti delle rassegne specialistiche e a entrare regolarmente nella programmazione delle fondazioni liriche, benché molte di esse si fregino di spazi perfetti allo scopo: magari non d'elezione le ampiezze della Scala, del San Carlo o del Petruzzelli, quanto piuttosto la Pergola fiorentina, il Comunale bolognese, il Teatrino di Corte partenopeo… Di certo non si assocerebbe subito all'opera del XVII e XVIII secolo una sala vasta e moderna come quella del Regio di Torino, ricostruita nel 1973 e della capienza di quasi milleseicento posti. Invece lo scorso anno la fondazione sabauda ha varato un Progetto Opera Barocca che, dopo il Giulio Cesare [leggi la recensione], prosegue con Dido and Aeneas di Purcell. Vale a dire, dopo un monumentale dramma storico, una miniatura mitologica che si immaginerebbe ideale per spazi raccolti, prossimi all'idea ispirata dall'unica rappresentazione seicentesca di cui si abbia notizia certa, in un collegio femminile del Chelsea.
Sorprendentemente, però, l'opera non ha sofferto della collocazione, affinando una resa complessiva perfino superiore per coesione e ispirazione a quella dello scorso anno. Sorprendentemente ma non troppo, perché scritturando Federico Maria Sardelli alla direzione musicale il Regio si è assicurato la tecnica dello spiecialista e l'estro dell'artista. In concreto, abbiamo sentito gli strumentisti stabili torinesi (integrati con elementi esterni solo per strumenti caratteristici come flauti a becco e dolciana – Maria De Martini e Ugo Galasso – e per la realizzazione del basso continuo – al cembalo Riccardo Mascia, alla viola da gamba Bettina Hoffman, alla tiorba e alla chitarra barocca Simone Vallerotonda, all'arpa Marta Graziolino) guidati alla perfezione nello stile del Seicento inglese, mettendo massimamente a frutto la duttilità acquista con la frequentazione di un repertorio vasto e raffinato. Il suono che ne risulta è sempre esatto, definito nettamente; pregnante e penetrante in tutta la sala senza gonfiarsi e tradire l'agile peculiarità della scrittura. E lo stesso discorso si può estendere alla prova del coro, che condivide con gli strumentisti la collocazione in buca. Il concertatore ha così modo di dar corpo a un fraseggio mobilissimo evitando la trappola della ridondaza, sicché l'intimismo emotivo, la compostezza tragica, le atmosfere incantate, sinistre, la delicatezza psicologica e la varietà d'affetti fluiscono senza soluzione di continuità e senza tema di monotonia. Al contrario, ma con un gusto e un'intelligenza che centrano il dettaglio, non si perdono nell'effetto. Con tale equilibrato sguardo s'insieme l'opera non soffre, anzi si giova dell'inserimento, rispetto all'edizione Laurie-Dart che già integra alcune lacune con altre pagine di Purcell, di ulteriori numeri di danza dell'autore selezionati da Sardelli e, alla bisogna, dallo stesso raccordati con alcune battute inserite ex novo, sempre nello spirito di una pratica teatrale antica cui si aderisce naturalmente, senza manierismo.
In un repertorio per il quale non sono necessarie tanto virtù vocali eclatanti quanto piuttosto superiore intelligenza musicale, va da sé che il contesto giovi a esaltare le qualità migliori della compagnia di canto. Ne è un esempio evidente l'Aeneas del baritono Benedict Nelson, il cui strumento si potrebbe definire di per sé un po' ruvido e non certo privilegiato, se non fosse piegato con grandissima sensibilità, flettendosi in filati toccanti nel suo commiato da Dido. Questa è incarnata con splendida finezza d'accenti da Roberta Invernizzi, che riesce a centellinare il dissolvimento spossato del lamento finale senza apparire sconfitta, bensì incidendo in studiati e più carnosi accenti una determinazione fiera e matura, ben sostenuta dalla dolcezza empatica della Belinda di Roberta Mameli e della Seconda Donna di Kate Fruchterman, affiatato e incisivo duo di confidenti. Alle streghe di Sofia Koberidze e Loriana Castellano va dato il merito non solo di un'efficace caratterizzazione timbrica, ma anche di un canto preciso e ben impostato anche quando la regia imponeva loro di duettare sospese a mezz'aria. La parte dello Spirito è breve assai, pur nelle proporzioni ridotte della partitura, ma fondamentale nell'evoluzione del dramma e Carlo Vistoli la serve da par suo, con la morbidezza d'emissione e il mordente d'articolazione che gli sono propri.
Nei panni della Maga non troviamo, come di consueto, un mezzosoprano, bensì un tenore invero assai baritoneggiante come Carlo Allemano, che si presta con impeccabile dedizione a una caratterizzazione del personaggio emblematica dell'intera messa in scena. La fusione del malvagio deus ex machina che, sostituendosi e simulando la volontà divina, causa la tragedia spingendo Aeneas alla partenza con il Marinaio che appresta la nave dei troiani alla partenza può essere infatti un'ottima soluzione drammaturgica, che rende ancor più insidiosa e pervasiva l'atmosfera soprannaturale che determina il fato degli esseri umani. Viceversa, però, la realizzazione lascia perplessa, ché l'incarnazione della Maga come androgino “centauro marino metà umano metà piovra” finisce per essere un'involontaria (?) quanto quasi letterale citazione della strega Ursula della Sirenetta disneyana. Così è difficile prenderla sul serio, ma anche divertirsi con un gioco ironico, giacché la regia di Cécile Roussat e Julien Lubek non ha il coraggio di percorrere fino in fondo la strada del divertissement e dell'allusione all'immaginario comune. Tutto lo spettacolo, peraltro, ha patito una dicotomia insanata fra spunti potenzialmente fruttuosi e una realizzazione che volava costantemente basso, fra lancio di coriandoli scintillanti, coreografie timidamente scolastiche, gigantesche conchiglie decisamente kitsch, costumi davvero troppo ingenui, come quelli delle sirene, o non pienamente sfuttati nel concetto. Ne è un esempio Dido: regina fondatrice in pantaloni, con il sorgere dell'amore per Aeneas ammorbidita in un semplice abito muliebre che, dopo la notte fatale della caccia, cresce in un'ampia e drappeggiata gonna a panier destinata a sciogliersi nelle onde marine che inghiottiranno la sovrana suicida. Tutte possibili buone idee in nuce, iscritte però in un disegno complessivo di breve respiro, nel quale si apprezzano singolarmente le capacità dei bravissimi acrobati (Edwin Condette, Tarzana Fuores, Anne-Claire Gonnard, Elodie Guezou, Antoine Helou e Ahamed Said), meno delle danzatrici Sayaka Kasuya e Sarasa Matsumoto. Indecisi fra ironia, minimalismo (molto avrebbe guadagnato l'allestimento rinunciando alla cartapesta e sfruttando solo el onde evocate da strisce di seta), rievocazione di gusti e macchinari teatrali antichi, suggestioni circensi, Roussat e Lubek offrono in definitiva una messa in scena ambiziosa ma irrisolta, un risultato piuttosto insipido che non riesce a liberarsi da una certa qual sensazione di provincialismo. Lo salva la musica, che riesce a elevare le singole immagini ben trovate e a venire in soccorso quando la regia zoppica. Così, con grande gioia, vediamo in sala un pubblico assai numeroso e partecipiamo a una festosissima accoglienza per tutti gli interpreti in proscenio dopo la commozione di un finale di rara intensità e trasparenza sonora.
foto Ramella Giannese