di Emanuele Dominioni
Orazio Sciortino mette in musica il racconto di Federico De Roberto La paura, ritratto angosciante dell'attesa della morte fra i soldati in una trincea della Grande Guerra, fino al paradossale suicidio per scampare al fatale turno di vedetta. Una paura che unisce e cementa i rapporti fra giovani provenienti dai diversi angoli della penisola, chiamati a cantare in vari dialetti, tranne il protagonista, che nella sua maggior, tragica consapevolezza è anche l'unico a esprimersi in italiano.
NOVARA, 3 novembre 2015 - Il tema della memoria risulta centrale nell'opera La paura di Orazio Sciortino, andata in scena in prima assoluta lo scorso giovedì 3 dicembre al Teatro Coccia di Novara. Il coraggio della direzione artistica di investire su un lavoro inedito del giovane quanto già affermato compositore siciliano mostra come, anche in realtà più piccole e defilate, si possa e debba celebrare la musica contemporanea, molto spesso relegata a qualche esecuzione in sedi concertistiche specializzate, o nei blasonati teatri delle più grandi città.
La lunga attività compositiva e pianistica di Sciortino si arricchisce in questa occasione con la sua prima prima opera lirica, scritta su libretto di Alberto Mattioli. Prima di entrare nel merito dell'esecuzione novarese, è giusto spendere una parola di plauso all'impresa non comune di Sciortino, la cui scelta di occuparsi di teatro musicale nel panorama della musica contemporanea (che premia soprattutto il genere sinfonico) si pone come ardua sfida fuori dal comune.
Al centro del progetto c'è la volontà di raccontare senza mezzi termini la prima Guerra Mondiale attraverso la realistica rievocazione del racconto omonimo di Federico De Roberto: un gruppo di soldati impegnati nell'offensiva contro gli austriaci sembra essere destinato al massacro, ogni militare che prende il turno di guardia è inevitabilmente vittima del fuoco nemico. Ciononostante ogni caduto deve essere sostituito da un altro soldato: la postazione di vedetta non può essere lasciata scoperta. Il tenente Alfani li chiama a rapporto uno dopo l'altro, ed essi, consapevoli della loro morte inevitabile, non possono che obbedire. Nel tragico sviluppo dei fatti, il focus drammatico è puntato in primis sul linguaggio: i personaggi si esprimono ognuno col proprio dialetto, ponendo al centro del soggetto il tema della diversità culturale con il quale all'epoca dei fatti si è inevitabilmente dovuto fare i conti per rafforzare l'identità comune del nostro paese. Al centro della vicenda è la figura del tenente Alfani (unico a esprimersi in italiano) e la sua lotta interiore fra senso del dovere e l'assurdità mortale degli ordini che è chiamato a impartire ai sottoposti. Sciortino ci regala un tappeto sonoro sempre cangiante e denso di tensione emotiva. Nell'angosciosa calma che precede ogni uscita di scena dei soldati, la scrittura si fa tesa e permeata da accenti sinistri. Dal ridotto organico orchestrale (dodici elementi in tutto, fra cui fiati, pianoforte, percussioni e archi) il compositore, anche nelle vesti di direttore, trae un discorso musicale senza soluzione di continuità, le cui oasi timbriche diventano vestibolo crepuscolare dell'azione drammatica.
In questo senso la regia di Simona Marchini si pone sulla scia di una messa in scena di stampo tradizionale. Le molte suggestioni a livello musicale e drammaturgico che una partitura del genere porta seco vengono assecondate in maniera generica dalla lettura registica, che premia maggiormente il realismo scenico, lasciando, però, spesso indeterminata la componente emotiva scaturita dalla musica. Anche a livello attoriale, poco o nulla succede per quasi tutti i sessanta minuti dell'azione, soprattutto per quanto riguarda le reazioni dei soldati allo stillicidio dei compagni e la consapevolezza che di lì a poco a ognuno di loro toccherà la stessa sorte. Tale inerzia scenica è accompagnata talvolta da scelte didascaliche, come ad esempio l'apparizione del coro schierato in fila in mezzo alle montagne, il cui significato drammaturgico sfugge o risulta manierato nell'impianto tradizionale scelto. Nel tentativo di tradurre scenicamente un'opera contemporanea si dovrebbe fare i conti con l'evoluzione del linguaggio registico, che in ambito teatrale va di pari passo con quella della musica. Anche se la partitura risulta sofisticata e a tratti imperscrutabile per il grande pubblico, volerla mettere in scena ciò rimanendo fedeli a un realismo di stampo classico finisce per svilire la tensione drammaturgica e l'assoluta modernità del messaggio di denuncia che la vicenda narrata porta con sé, nel tentativo di voler apporre un'aurea cornice barocca a una tela di Fontana.
La scrittura vocale di Sciortino (sempre oscillante fra parlato e declamato) è irta di difficoltà sia tecniche sia ritmiche e indissolubilmente legata all'articolazione del testo, anche in riferimento alle già gitate inflessioni dialettali dei protagonisti. In questo senso, tutti i solisti si sono mostrati all'altezza della sfida, nonostante il ridotto numero di prove, e l'esecuzione canora è parsa in tal senso curata e precisa. Su tutti possiamo segnalare l'ottima prova di Blagoj Nacoski, tenore macedone dotato di timbro accattivante e perfetta dizione. Completamente a suo agio nel ruolo emotivamente complesso del tenente Alfani, ha offerto un'interpretazione del personaggio ben a fuoco, affrontando con sicurezza la complessità della scrittura. A fianco a lui ci preme segnalare la solida vocalità e dirompente presenza scenica di Daniele Cusari nei panni del caporale e le positive performance di Vladimir Reutov (il soldato Ricci) e Tiziano Castro (il sergente Borga). Un nutrito gruppo di attori formato dagli allievi del corso di Teatro musicale, completava il cast presente sulla scena, la cui partecipazione ha reso appieno la tragica complessità della vicenda attraverso i numerosi interventi recitati, con prove di grande impatto fisico ed emotivo. Meno a fuoco la performance del coro diretto da Massimo Fiocchi Malaspina, il cui organico era formato dagli attori stessi.
Grande successo da parte del pubblico presente in sala, il cui coinvolgimento emotivo è parso evidente soprattutto nel tragico finale dell'opera.
foto Mario Finotti