di Roberta Pedrotti
Chiusura decisamente sottotono con per la stagione lirica del Grande con Un ballo in maschera teatralmente inconsistente e incoerente messo in scena da Nicola Berloffa. Mediocre, nel complesso, la resa musicale.
BRESCIA, 13 dicembre 2015 - “Ma va'!”, “Che c**ata”, “Che schifo” dal loggione, risate da tutta la sala. Quando la prima accoglienza di uno spettacolo è in questi termini due sono le possibilità, che ci si trovi di fronte a un capolavoro rivoluzionario come Le sacre du printemps o che effettivamente qualcosa non funzioni. Bisogna ammettere che casi come quello del balletto di Stravinskij non sono comunissimi e che più frequente è, purtroppo, la seconda opzione, tanto più quando non solo gli improperi, ma perfino le risa sono scaturite da quella che dovrebbe essere la rievocazione di un omicidio, quello di Abraham Lincoln.
Così si apre, prima del preludio verdiano, l'allestimento di Un ballo in maschera ideato da Nicola Berloffa, e se l'associazione fra il destino del governatore di Boston nell'opera e quello di tanti colleghi politici statunitensi può rasentare lo scontato, il problema è che la pantomima, nei movimenti e nel trucco (davvero terribili la barba finta e l'acconciatura del finto Lincoln), risulta goffa anzichenò e apre la strada a un allestimento maldestro e incoerente. Ricorrendo, volutamente a visione avvenuta, alle note di regia si scopre che Berloffa avrebbe inteso rappresentare diversi livelli drammatugici attraverso l'accostamento di varie icone dell'immaginario americano. Peccato che questo filo piuttosto esile si traduca in una recitazione assai trasandata, assolutamente convenzionale, e in un'accozzaglia di riferimenti e di giustapposizioni che non riescono mai a elevarsi da un senso generale d'incoerenza e confusione.
Riccardo veste una divisa nordista, o, più spesso, un abito da sera che condivide con tutti i suoi cortigiani fedeli, cui serve anche personalmente un buon té delle cinque, mentre Samuel Tom e i congiurati si aggirano brandendo le loro colt e sembrano usciti da un film di Sergio Leone. Ulrica viene presentata dal primo giudice come “dell'immondo sangue dei negri”, ma in realtà è una nativa americana (si sa che i razzisti tendono a fare di tutte l'erbe un fascio) che fa la maglia fra una profezia e l'altra, offre mele caramellate mentre nella sua piccola tribù c'è chi minaccia i clienti con il suo tomahawak come chi distribuisce mestoli di fumanti pozioni (brodo di mela) ai paesani della Casa nella prateria in ciotole intagliate da zucche di Halloween. Dame settecentesche, valletti in livrea pure settecentesca vanno ad arricchire un collage nel quale Oscar può presentarsi in divisa da equitazione e poi in sfarzoso abito da sera con ampia gonna e scollatura senza che nessuno cessi di rivolgersi a lei (lui?) al maschile o che il ruolo di questa damigella sia mai ben chiarito. Né viene chiarito chi sia la dama bionda che si dispera e scrive il biglietto d'avvertimento nel palco accanto a quello in cui, citazione perfetta e ricorrente del Ford Theater dove Lincoln fu ucciso, Riccardo intona “Ma se m'è forza perderti”. Il ballo consiste in una sorta di teatro di rivista culminante – di nuovo – con la rievocazione della morte del presidente antischiavista, mentre in proscenio Oscar e i congiurati in costume da pellerossa si muovono a tempo di musica. E mille e mille sarebbero gli aneddoti irrelati che potremmo inanellare.
Un po' di Western, un po' di Via col vento, tanta noia ravvivata solo da qualche comicità involontaria, qualche svista e qualche forzatura nell'amalgamare, non senza grumi, ingredienti troppo eterogenei. E se i costumi di Valeria Donata Bettella potrebbero trovare una seconda, miglior vita, fra Traviate e Fanciulle del West, le scene di Fabio Cherstich si distinguono per un'insigne bruttezza che difficilmente potrebbe essere redenta.
Né la recita è redenta dal puro ascolto, perché se l'opera è teatro in musica e un elemento senza l'altro risulta zoppo, non possiamo dire che l'altra gamba si reggesse in piena salute. Pietro Mianiti si prodiga per far filare tutto liscio, e l'orchestra suona assai correttamente, pur in una dinamica abbastanza ristretta: giusto un paio di belle sottolineature liriche nell'introduzione al secondo atto e nell'aria di Renato escono da un tono generale piuttosto monocorde e a tratti (“Su, profetessa, monta il treppiè”) invero pesantuccio. Sergio Escobar parte generoso, anche se non si può dire che la tecnica gli garantisca sicurezza e, difatti, se lo squillo e un colore piacevole non mancano, restano davvero troppo poco per Riccardo, quando la musicalità e l'emissione son tutte istinto e nel corso della recita crescono cedimenti e disordini, ben più significativi della puntatura incrinata anche dopo mille precauzioni in “Sì, rivederti Amelia”. Questa è Daria Masiero, che non fallisce gli acuti più scomodi nell'orrido campo e s'impegna anche in alcuni filati, ma rovina tutto ricercando una drammaticità e uno spessore che non sono reale e sana ampiezza di cavata, bensì suono incupito, gonfio e oscillante nei centri. Non l'aiuta una definizione davvero datata e riduttiva del personaggio, per nulla approfondito da una regia che, a dispetto del testo, non propone nemmeno un'ombra di turbamento dopo la sofferta dichiarazione d'amore a Riccardo.
Angelo Veccia, Renato, è il cantante più saldo ed equilibrato, anche se con qualche durezza nel legato, mentre Anna Maria Chiuri è un'Ulrica sicura in acuto, più oscillante nei centri e nei gravi e Shoushik Barsoumian un Oscar (o un'Oscar?) dal timbro promettente ma ancora da rifinire per conferire la giusta penetrazione e brillantezza ai passi di coloratura. Mariano Buccino e Francesco Milanese fanno quel che possono per dare una qualche credibilità ai loro pistoleri neri; Carlo Checchi è un Silvano un po' sottotono e Matteo Mollica il Servo d'Amelia e il Primo Giudice.
Il coro, preparato da Antonio Greco con le voci bianche di Giuseppe Guglieminotti Valetta, parte non perfettamente a fuoco, ma si rinfranca strada facendo.
Così, pur con un non indifferente numero di scontenti e più d'un segno di dissenso finale, alla fine la bontà è in trionfo e gli applausi si moltiplicano al calare del sipario su questa stagione lirica 2015. Stagione che ricorderemo sicuramente per le belle Nozze di Figaro [leggi la recensione] e la sempre godibilissima Scala di seta [leggi la recensione] messa in scena da Michieletto, mentre su questo Ballo sarà bene stendere un pietoso velo in favore della precedente, per quanto non esaltante, produzione di tredici anni fa con protagonista il compianto Salvatore Licitra.
foto Alessia Santambrogio