di Giuseppe Guggino
Con la ripresa del Ring wagneriano “interrotto” di Graham Vick il Teatro Massimo di Palermo riguadagna l’interesse della critica italiana, per l’occasione rappresentata dalle firme più autorevoli delle maggiori testate nazionali. In crescendo tra gli atti la prova dell’orchestra guidata dall’affidabile Stefan Anton Reck, ottimo il cast ad eccezione del ruolo eponimo, inedita, geniale e straordinariamente coerente la lettura del regista inglese.
Palermo, 18 dicembre 2015 - Con il palcoscenico a sipario aperto, è l’ingresso in proscenio del vile nano dai capelli bianchi Mime che riannoda le fila del Ring palermitano avviato nel 2013, in occasione del bicentenario wagneriano e poi interrotto dalla gestione commissariale per ragioni che ancora oggi ci appaiono non appieno comprensibili. Si verificò allora, infatti, una contrazione del contributo regionale alla Fondazione Teatro Massimo per circa 3 Mln di euro coniugata alla scelta di “congelare” nel fondo rischi 2.694.943 € a coprire eventuali conseguenze sfavorevoli di controversie contributive, determinando così un esito d’esercizio congiunturalmente negativo sebbene di entità risibile, se rapportato alla regola di altre gestioni. Eppure a distanza di oltre due anni la somma accantonata giace in larga misura ancora allocata nel tesoretto del fondo rischi, mentre altri accantonamenti risultano impiegati già nell’anno successivo “l’interruzione” a coprire spesa corrente per 1.090.268 € e incentivi di pensionamento per 700.000 €. Comunque sia, quel che veramente conta è che finalmente a Graham Vick si sia dato modo di riprendere il progetto rimasto monco e che egli, con una certa generosità e con eleganza da vero british gentleman, abbia anche accettato.
Del linguaggio totemico, stratificato, complesso, talvolta ambiguo nel quale la drammaturgia del Ring è concepita, dove tutto e il contrario di tutto può leggervisi, il pluripremiato regista inglese – pur concedendosi qualche incursione nel terreno politico-socialista (il terzo quadro del Rheingold, ambientato in una seduta di borsa, per esempio), sceglie la strada umanizzante del mito, che conferisce alla sua declinazione una connotazione inusitata, inedita quanto coerente in chiave psicologica.
Il primo atto di questo terzo tassello si svolge tutto schiacciato nel proscenio che rappresenta la squallida casa di Mime, costituita da una cucina piuttosto lercia sulla sinistra, da un soggiorno al centro e dal letto a castello del giovane Siegfried a destra. Ai colpi primi colpi di martello della partitura (sostituiti dal triangolo in orchestra) l’ignobile nano siede al pc, intento a chattare (a tempo di colpi di martello) o forse anche a spiare i profili facebook non in sintonia con la propria idea delirante del mondo e del potere: da qui Vick ne fa per tutto l’atto un capolavoro di abiezione con recitazione untuosa e querelante sempre curatissima, apparentemente gentile ed affettuosa con un poco eroico Siegfried, che nella lettura registica è un giovane in piena pubertà (quindi avvezzo a pratiche usuali per quell’età), look Converse camicione e zainetto, con orsacchiotto di peluche sempre al seguito. La coerenza drammaturgica non può che completarsi con la punizione di Mime per sodomizzazione a opera del Viandante (dopo che questi gli rivela chi potrà forgiare nuovamente Notung), prima ancora dell’eliminazione fisica per la quale sarà sufficiente financo un eroe piuttosto bamboccione. E proprio la forgiatura della spada è l’altro capolavoro d’ilarità dissacrante nel primo atto: Siegfried macina gli ingredienti al tritacarne (mentre Mime si cimenta nella preparazione del picnic avvelenato per l’atto seguente), li fonde al barbecue, effettua la tempra della colata nell’acquario (dopo aver rimosso i pesciolini rossi con l’apposita retina) e rinviene al barbecue l’acciaio con il quale si avvia a conoscere la paura.
Il secondo atto ripresenta il medesimo impianto scenico dei primi due tasselli già visti: al di fuori del microcosmo domestico di Mime il mondo è il Teatro, con il suo palcoscenico quasi del tutto a nudo, in cui alcune strutture reticolari (dalla colorazione Corten, a rievocare quella delle strutture laterali proprie del palcoscenico) sbandate in buckling, sospese, suggeriscono qualcosa di rotto, da riparare. La foresta è appena evocata da un fondale su pedana per skateboard (su cui il poco eroico Siegfried si svaga) e in questo non luogo, ingombro di pattume, si ritrovano i mimi, vero filo rosso di questo Ring, tornati a dar vita alla natura brulicante, sotto la sempre eccellente supervisione di Ron Howell. Il drago diventa un carrello elevatore – identico a quello dei giganti-operai Fasolt e Fafner nel Rheingold – munito di schermi a simulare la bocca e gli occhi mentre la voce dell’uccello diventa vero e proprio personaggio: girl scout.
Sostanzialmente immutata si presenta la scena all’inizio del terzo atto, dove Erda non appare ricoperta di brina come vorrebbe il libretto, ma è semplicemente una donna attempata (mentre nel Rheingold era un’accattivante soubrette nel pieno fulgore della bellezza). È nell’interludio orchestrale precedente il grande duetto conclusivo che la scena si svuota totalmente e riporta la vista quasi esattamente al terzo atto della Walküre; Siegfried giunge dal fondo e ritrova il sacco nero nel quale era stata chiusa Brünnhilde e il suo cavallo (antropico), attorniati dai fumatori custodi del sonno durato due anni e dieci mesi. Immutato in questo lungo sonno è rimasto quindi l’impianto scenico di Richard Hudson (che cura anche i costumi) che diremmo pensato a quattro mani con Basile [l'architetto che progettò il Teatro Massimo, ndr]: nonostante il tempo, il Teatro è e rimane magnifico. Completa uno spettacolo tanto perfetto la realizzazione luci di Giuseppe Di Iorio, capace di ricreare nel primo atto persino l’effetto del televisore acceso, per non fare che un minuscolo esempio.
L’intero cast è versato benissimo nella visione drammaturgica di Vick e agisce con una presenza scenica da manuale. Dal punto di vista strettamente vocale il livello è alto, specialmente per il Mime di Peter Bronder (sempre molto cantato), l’Erda di Judit Kutasi e il Wotan molto sonoro di Thomas Gazheli. Corretti, seppur con meno smalto, risultano il drago-Fafner di Michel Eder e l’Alberich di Sergei Leiferkus. Rende giustizia della bellezza del lungo duetto conclusivo la vocalità del soprano Meagan Miller mentre difetta (e non poco) per intonazione, volume, colore e tenuta il Siegfried di Christian Voigt.
Stefan Anton Reck è direttore che frequenta molto Wagner, lo legge analiticamente, senza caricarlo di incrostazioni teutoniche né rifugiarsi nella scorciatoia delle sonorità debordanti; il risultato che cava è quello di un’Orchestra in crescita nel corso degli atti: talvolta si gioca di rimessa nel primo mancando della necessaria incisività, molto buona risulta invece la ricerca di sonorità cameristiche nella foresta, dove gli interventi solistici risultano in massima parte ben risolti (e stilisticamente il secondo atto è il più problematico da centrare!), prima di concludere con un terz’atto eseguito in grande spolvero, nel quale i complessi riescono a dimostrare tutte le loro enormi potenzialità.
Per l’occasione tantissime e prestigiose sono le presenze della stampa registrate in sala, oltre a quelle di stimabili Sovrintendenti nonché dell’ex Sovrintendente Cognata a cui si deve l’iniziale programmazione del ciclo, accompagnato dal direttore artistico dell’epoca.
Purtroppo, a differenza di due anni, ben diversa è stata la risposta di pubblico con parecchi vuoti tra i palchi già dall’inizio della serata, peraltro destinati ad aumentare tra un intervallo e l’altro: sintomo – assieme a qualche sparuta e incomprensibile contestazione indirizzata a Vick – che il Teatro ha conosciuto la paura. Per le cose pensate e fatte bene.
Foto Franco Lannino/Studio Camera e Rosellina Garbo