di Roberta Pedrotti
Tappa bolognese per il tour di Maria Perrotta consacrato a Bach e alle Variazioni Goldberg, di cui si conferma una delle interpreti più conturbanti.
BOLOGNA, 22 gennaio 2015 - Sud e magia: alla fine degli anni '50 del secolo scorso, Ernesto De Martino, di scuola crociana, dava alle stampe un saggio che avrebbe fatto epoca nella storia dell'antropologia italiana approfondendo, tra l'altro, per la prima volta il fenomeno della taranta pugliese, in cui il rito dionisiaco identifica, si può dire, la musica e il principio femminile.
La donna resta al centro del mondo magico in tutte le terre antiche della Magna Grecia, le terre delle Sirene e delle Sibille, fra le quali, però, la Calabria occupa un posto particolare. Sede dell'esoterismo dei pitagorici e dei culti di Apollo Aleo e Hera Lacinia, restò fino all'età romana caratterizzata più che dalla cultura pervasiva della Graecia capta, dal riserbo dei montanari Brutii. Della dominazione araba e normanna non conobbe le delizie siciliane, ma soprattutto battaglie e scorrerie che ne hanno disseminato il territorio di rocche e fortezze più che di regge e palazzi. Così riti e usi antichi sembrano essere rimasti nascosti e segreti, come le tante bellezze di quella terra; custoditi da sacerdotesse che si tramandano per discendenza femminile incantesimi e misteriosi sincretismi che vedono in streghe e Madonne le eredi delle divine matriarche mediterranee.
La cosentina Maria Perrotta sembra la sacerdotessa discreta di un potere antico, forte e sfuggente. C'è una sorta di vaghezza astratta nell'eleganza semplice con cui siede al piano e si concentra nella musica, ma in quella musica trasmette un incantesimo inquietante e soggiogante. E limpidissimo, perché come in ogni rito non c'è gesto o parola che non vada rispettata con esattezza, così Bach esige la precisione, e la capacità di leggere con eguale chiarezza le diverse dimensioni, verticali e orizzontali, della sua musica.
Il programma, per questo concerto promosso dalla Fondazione Musica Insieme nel ciclo Musica in Ateneo nell'Auditorium dell'Università bolognese, prevede le Variazioni Goldberg, raccolta intorno alla quale constatiamo siano dure a morire le fantasiose leggende sull'insonnia del conte Keyserling o sulla coppa ricolma di monete come ricompensa (quasi fossimo in una fiaba su folletti, arcobaleni e montagne d'oro, in tedesco, appunto, Goldberg). Piero Rattalino ha smentito con esemplare chiarezza gli aneddoti accumulati da una storiografia musicale in evidente difficoltà a collocare, accanto alle commissioni sacre e profane che affollano il catalogo bachiano, anche i lavori puramente speculativi, sperimentali o didattici come il Clavicembalo ben temperato e, appunto, con tutta probabilità le cosiddette Goldberg. Ma l'aura di leggenda non dispiace, la mancanza di un movente concreto e documentato per la composizione ne accresce in un certo senso il fascino e si sposa a meraviglia con la lettura della Perrotta, che ne esalta gli equilibri e la geometria compositiva senza congelarla nel cristallo, che ne tornisce la melodia e l'espressione senza perdersi in turgori e libertà fuori luogo, che si muove con grazia senz'essere leziosa, che non gioca a scimmiottare il clavicembalo né a romanticizzare il barocco.
E, soprattutto, dosa questi ingredienti senza perdere la forza di un sapore deciso. Anzi, realizzando l'incantesimo di una pulizia cristallina che avvince per la tensione e le sofisticate ombreggiature, che colpisca al cuore il mistero inafferrabile e il rigore del rito.
L'energia interiore che esprime non è semplice potenza, non è vigore, ma si dipana in un crescendo continuo e sorvegliatissimo, che rispetta sia il rigore strutturale della singola variazione e la densità dell'elaborazione bachiana, sia l'ampiezza di un discorso unico che sembra abbracciare, in poco più di un'ora e trenta riletture di uno stesso tema, tutta la musica del mondo. Alla fine le ultime tre variazioni sembrano sprigionare una forza intrinseca sconvolgente, tanto che il ritorno all'aria pura e semplice, così intensamente e delicatamente delibata, da cui tutto era cominciato lascia un senso disorientante di spossatezza e malinconia, nostalgia e appagamento.
L'interpretazione è esaltata da uno splendido Steinway, inaugurato proprio in quest'occasione e che la Perrotta domina in tutta la sua bellezza e versatilità sonora senza lasciarsi travolgere dalla personalità dello strumento, perfettamente piegato alle volontà dell'interprete con tocco sensibilissimo e un pedale quasi impercettibile, sollecitato quel tanto che basta a rispondere all'acustica un po' asciutta della sala senza tradire il gusto e lo stile. Le scelte coloristiche, anzi, nella loro sottigliezza, sono incisive e peculiari quanto perfettamente misurate.
La sala è come ipnotizzata. Alcuni secondi di silenzio. Un applauso interminabile. Maria Perrotta ha già un contratto con la Decca, ma non sappiamo se lo star system internazionale abbia ancora ben compreso il valore di questa pianista: buon per noi, intanto, che abbiamo ora così frequenti occasioni d'applaudirla in Italia.