di Francesco Lora
Durante la tournée europea, l’Orchestra del Gewandhaus di Lipsia tocca anche il Teatro alla Scala Milano, con il quale condividerà presto il direttore musicale. Concertato da Riccardo Chailly, il programma attinge dalle massime specialità della bacchetta e della compagine: Mendelssohn e Mahler.
MILANO, 16 febbraio 2015 - Tra le grandi orchestre tedesche, quella del Gewandhaus di Lipsia non è da meno dei Berliner e dei Münchner Philharmoniker, o della Staatskapelle di Berlino e Dresda. È solo meno avvezza, o con minor grido, a festeggiate tournée in Italia; e ciò a dispetto del fatto che il suo direttore musicale, da dieci anni a questa parte e per altri cinque almeno, sia l’italiano Riccardo Chailly. Dall’8 al 22 febbraio, un gran giro dell’orchestra lipsiense sta toccando l’Europa attraverso Bruxelles, Colonia, Dortmund, Friburgo, Lussemburgo, Madrid, Monaco di Baviera, Stoccarda e Torino; in mezzo, un particolare significato è assunto dall’osannato concerto milanese del giorno 16, nel Teatro alla Scala, il medesimo ove nel volgere di pochi mesi si insedierà come direttore musicale Chailly stesso.
Nel presentarsi al pubblico italiano, orchestra e direttore esibiscono una carta d’identità fitta di segni particolari. A comporre il programma vi sono il Concerto in Mi minore per violino op. 64 di Felix Mendelssohn-Bartholdy e la Sinfonia n. 1 in Re maggiore “Titano” di Gustav Mahler, vale a dire due composizioni e due compositori che legano, doppiamente e come non altri, la genesi e l’attività a Lipsia e al Gewandhaus. A sua volta, in una tale articolazione, Chailly riceve e dà: da una parte mostra il Mendelssohn affinato nei propri anni sàssoni con un’orchestra che ne detiene un primato di tradizione esecutiva, dall’altra mostra il Mahler che egli stesso ha recato in dote, da conclamato specialista di questo autore, ai già scaltriti professori del Gewandhaus; fa anzi benignamente sorridere che diriga il “Titano” aprendo e seguendo tuttora la partitura sotto i propri occhi, egli che ne ha ormai mandata a mente e meditata ogni più sottile piega tecnica e retorica.
Soprattutto in Mendelssohn, direttore e orchestra mostrano i più schietti requisiti del congegno strumentale: suono non metallico e massiccio ma avvolgente e poroso, ove la luce timbrica è più spesso assorbita che emanata; viole di calore singolare, ottoni mai tentati di esibizionistica sedizione, legni che al contrario escono quasi con impertinenza dall’assieme per far ascoltare ben sgranati i loro passaggi solistici; lettura castigata, semplice, essenziale, condotta con la naturalezza di chi professa il repertorio romantico nel domestico quotidiano borghese anziché nel celebrativo fasto straordinario (la mente corre in primo luogo ai vicini della Staatskapelle di Dresda, loro sì filigranati nell’oro e idealmente sempre apparato della corte ducale che fu). Sullo sfondo cordiale e alonato si staglia il violino solo di Julian Rachlin, lucido nel timbro, chiaro nel fraseggio, guizzante nelle figurazioni, perfetto nell’intonazione come altri non si ricordava da lungo tempo. In Mahler, l’organico si ispessisce senza che l’orizzonte poetico stabilito in Mendelssohn sia ritrattato; in una visione razionale, il gesto di Chailly comanda interventi d’orchestra netti e oggettivi, sfrondando non tanto il senso indiscusso di questo mezzo poema sinfonico quanto certa sua sovrastruttura evocativa e descrittiva; la componente ironica si assottiglia fino a procurare il sapido giganteggiamento di un semplice rubato, e lo sfolgorìo del finale risulta così preparato al millimetro, senza che il grandioso effetto sia consumato prima del tempo. E senza che l’apoteosi raggiunta, beninteso, ammetta la concessione di un encore.