di Roberta Pedrotti
Il Quartetto Hagen incarna lo spirito stesso del Quartetto d'Archi quasi come un'emanazione diretta dell'idea platonica. Tecnicamente perfetta, forti di un'articolazione intelligentissima, acuta e profonda, sanno cogliere la giusta misura espressiva, restituendo l'anima degli ultimi dei sei quartetti che Mozart dedicò e donò ad Haydn.
BOLOGNA, 23 febbraio 2015 - È insita, nello spirito del Quartetto d'archi, una dimensione intima e confidenziale, si potrebbe dire domestica, eredità del madrigale cortigiano, cantato e suonato per il piacere riservato degli stessi esecutori. Così nella musica da camera si respira l'atmosfera del dilettantismo anche insigne e virtuoso, ma tale perché basato sul diletto del far musica, più che sulle formalità di un'esibizione pubblica.
D'altro canto, il Quartetto è una sorta di distillato dell'orchestra classica, di sofisticato laboratorio compositivo libero da convenzioni ed estremamente duttile nella sua essenzialità. Quotidiana, casalinga e raffinata, sperimentale. Semplice e virtuosa.
Così sono i sei Quartetti che Mozart dedicò (cedendogli anche i diritti) ad Haydn con gesto riconoscente e affettuoso d'ideale allievo e devoto figliolo artistico, condensando – nell'atto personale e privato della dedica e nella destinazione pubblica delle edizioni a stampa – l'aspetto esoterico e quello essoterico del Quartetto, la sua intimità unita a una vertigine compositiva che segna inequivocabilmente una svolta verso la piena maturità artistica.
Così è lo storico Quartetto Hagen: tre fratelli (i due maschi d'impressionante rassomiglianza in viso) che suonano assieme dal 1981, quando la quarta sorella era secondo violino, ruolo coperto dal 1987 da Rainer Schmidt. Formano, inevitabilmente, un organismo per il quale parlare d'affiatamento risulterebbe perfino riduttivo e impreciso, tale è la profonda unità di un microcosmo sonoro nel quale ogni elemento delinea tuttavia la propria identità indispensabile all'equilibrio, all'essenza stessa del complesso e al suo funzionamento. Suonano con una naturalezza quotidiana, quasi fossero soli, come antichi dilettanti, ma non ci fanno sentire né esclusi, né intrusi, né forzatamente assorbiti nel loro salotto. Ciascuno di noi è semplicemente lì, nella dimensione delicata e saldissima dell'intimità del Quartetto.
Un'intimità intellettuale, nella quale non c'è spazio per arredi biedermeier, buone cose di pessimo gusto, rassicuranti abitudini e allettanti dolcezze. Con impagabile, disinvolta franchezza il Quartetto Hagen ci coinvolge nell'articolazione nettissima di un linguaggio peculiare, sciolto, che si scopre familiare, ma anche così pulito, intelligente, fresco, acuto e profondo da cogliere sempre con la stessa sorpresa di un primo ascolto rivelatore.
La precisione, la chiarezza di idee, la perfezione di un fraseggio di cui è evidente ogni dettaglio esser stato curato e pensato minutamente, ma di cui è pure disarmante la fluidità d'espressione con cui sanno far dimenticare la tecnica e l'analisi. La maturità è tale proprio perché fa intendere tutti i frutti e le conquiste di un percorso senza farne pesare le fatiche, i tempi, le distanze.
Ascoltiamo gli ultimi tre quartetti della serie haydiniana. Apre la serata il K 458, La caccia, che, a differenza dell'omonimo del dedicatario, non ha nulla di descrittivo, men che meno di narrativo. È solo una piccola cellula, un motto a richiamare la figura tipica del corno (come non pensare al Giulio Cesare di Haendel e all'aria “Va tacito e nascosto”?), ma è sempre questo motto a informare l'intera composizione, ricorrendo, proteiforme e pure riconoscibile, fra variazioni, canoni, contrappunti le cui dimensioni sono dipanate dalle quattro voci degli Hagen con tale intelligenza, eleganza e pregnanza da lasciare esterrefatti.
Segue il K 464, lasciato senza titolo dall'editore ma beneficiato di una ben più gratificante attenzione beethoveniana, pienamente giustificata da quella severa ispirazione e da quella scienza dipanate come in un dotto cenacolo in cui la filosofia vissuta con piacere dialettico, e non come esercizio autoreferenziale.
La seconda parte del concerto è tutta consacrata al Quartetto K 465 Le dissonanze. Ancora una volta l'intimità profonda con il linguaggio mozartiano e quartettistico si concretizza in un discorso naturale e fluente che non ha nulla di teatrale in senso esteriore, eppure coglie la cantabile, finissima teatralità del brano. Ne coglie la dotta architettura contrappuntistica, l'eterna, classica modernità che, nell'omaggiare le radici della dottrina musicale tedesca ed europea (ché l'indole assolutamente teutonica di Bach era pur sempre inserita in un movimentato circuito che coinvolgeva tutte le maggiori menti e scuole del Continente), getta anche un ponte ideale verso tutti i frutti della scienza del contrappunto e della dialettica di consonanze e dissonanze, nella civiltà dell'armonia tonale e dell'accordo come nelle sue parenti occidentali più o meno prossime. Ancora una volta Clemens, Veronika e Lukas Hagen con Rainer Schmidt dimostrano cosa significhi dare corpo, seppur nella consistenza volatile di un suono che conosce la sola dimensione del tempo, all'anima stessa del Quartetto, alle sue sottilissime sfumature di pathos e logos. Quando si parla, infatti, di teatralità non si tratta di esibizione e sentimentalismo, ma di sensibilità; quando si parla di intelligenza non si tratta di speculazione astratta, ma di chiarezza e profondità di idee. Quando si parla di complesso, non troviamo la sintesi di un'orchestra, ma un organismo autosufficiente in quattro individualità si incontrano in un rapporto continuo, cangiante e sempre necessario che li rende distinti e inscindibili. Capaci di cogliere e rendere la complessità e l'altezza sublime delle dissonanze con una franchezza e un garbo tanto appaganti, raffinati, acuti da risultare perfino stranianti, perturbanti.
L'auditorium Manzoni è affollato come capita di rado anche per i concerti sinfonici e sarebbe stato difficile immaginare, in altre occasioni, per la musica da camera. Ma questo è un evento eccezionale, che richiama un pubblico anche più variegato anagraficamente del solito, egualmente, però, attento ed entusiasta. Il bis è d'obbligo, con l'Andate cantabile delle Dissonanze, cesellato con la morbidezza espressiva di un Lied, valorizzando con eleganza impagabile gli accostamenti timbrici e i rapporti fra gli strumenti, ma anche detto ancora una volta con quella misura e quella puntualità che lasciano risplendere tutte le sfaccettature della gemma più preziosa tagliata da mano di maestro artigiano e artista.