di Anna Costalonga
Attraverso lavori della piena maturità, se non postumi, di Brahms e Schubert, il pianista Arcadi Volodos dipana una lirica riflessione in un’atmosfera totalmente meditativa, retrospettiva, malinconica e talora amara.
LIPSIA 4 marzo 2015 - In una Gewandhaus per due terzi vuota, si è esibito mercoledì sera Arcadi Volodos in un recital interamente dedicato a Brahms e Schubert: prima parte brahmsiana con le Variazioni in Re bemolle op.18 e i 6 Pezzi per Pianoforte op.118, seconda schubertiana con la seconda la sonata op.D 960.
Fin dalle prime note delle Variazioni op.18, colpiscono il gusto e la cantabilità del tocco di Volodos. Il rincorrersi ciclico del tema e delle sue varianti armoniche, questa divagazione sonora quasi ossessiva, tipica delle variazioni brahmsiane, può portare un ascoltatore non avvezzo a naufragare in un mare di note e sensazioni contrastanti. Per tutta la durata del brano, Volodos riesce invece a condurre l’ascolto del pubblico attraverso un filo logico concentrato sull’espressione e sulle dinamiche; dal lirico-elegiaco, al solenne, quasi beethoveniano, fino al rarefatto, al lontanissimo, tutta questa gamma espressiva sembra trovare un senso, un percorso, una congruenza.
La melodia del tema iniziale sotto le dita di Volodos è un dolce ricordo che viene sempre di più reimmaginato fino alla sua stessa frantumazione, fino a un malinconico sprofondamento in un lontano indefinibile.
Lo stesso si può dire per l’opera 118, una delle ultime opere di Brahms, dove la malinconia prende a tratti il gusto di un amaro e nero rimpianto. Una malinconia austera, che viene alleggerita con un notevole lirismo, sempre privilegiando la delicatezza, con un tocco mai pesante o troppo marziale. Nel n.6, in particolare, Volodos offre sonorità mai sforzate, mai calcate, ma omogenee e rarefatte. Come nelle variazioni, il tema torna in maniera beethoveniana più e più volte, finché questo si risolve in una tonalità elegiaca, più composta, fino ad arrivare nelle ultime battute a una frantumazione finale, dove è quasi più quello che non si sente di quello che si sente: del tema non rimangono che alcuni flebili accordi, e degli accordi a loro volta, non rimangono che alcune lontanissime note, in una rassegnata e dolorosa disintegrazione finale.
Anche e forse soprattutto nei 6 pezzi op.118, Volodos è riuscito a trasmettere una interpretazione consistente, lirica, in alcuni punti perfino commossa, senza mai far perdere l’attenzione o la tensione dell’ascolto: è senza dubbio cosa non comune in un repertorio come questo.
Nel secondo tempo, Volodos ha proseguito questa ricerca espressiva tra malinconia e elegia, con la sonata postuma di Schubert, la D960.
Qui la delicatezza del suo tocco raggiunge vertici di rarefazione e lirismo; il terzo movimento, Allegro vivace con delicatezza, non potrebbe riassumere meglio il tono, il registro di tutta la serata.
Una serata improntata alla omogeneità - anzi, forse troppo omogenea nel suo carattere di mesta elegia, di raffinata rarefazione. È mancato il contrasto, lo stacco nel programma - quello stacco che invece era previsto nel programma originario con la sonata n.17 La Tempesta di Beethoven, e che invece è stata sostituita dalle Variazioni op.18 di Brahms, per amor di consistenza lirica.
Per Volodos è stato più importante condurre il pubblico in un’atmosfera totalmente meditativa, retrospettiva, malinconica e talora amara, come solo le opere ultime o postume possono avere - e in questo intento ci è riuscito benissimo, rivelandosi interprete di gusto e di grande sensibilità espressiva.