di Stefano Ceccarelli
Nella prestigiosa sala Santa Cecilia torna a dirigere e a incantare il direttore stabile dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Antonio Pappano. Con lui il giovane pianista − eppur già affermato − Alexander Romanovsky. Il programma è fortemente dicotomico: il primo tempo vede due composizioni di Sergej Rachmaninoff, il poema sinfonico L’isola dei morti op. 29 e il Concerto n. 1 in fa diesis minore per pianoforte e orchestra op. 1; il secondo è dedicato a Jean Sibelius con la sua più famosa sinfonia, la Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 43.
ROMA, 23 marzo 2015 – Russia e Finlandia, geograficamente vicine, lo sono, ora più che mai, anche in un concerto. Sergej Rachmaninoff e Jean Sibelius occupano i due tempi di una stessa serata. Antonio Pappano riunisce nel programma di un corposo concerto due autori quasi coetanei, musicalmente (meno ideologicamente) cresciuti in uno stesso clima tardoromantico: il risultato è veramente emozionante. (Se ne potrà rendere conto anche il pubblico di Rai 3, visto che il concerto è stato ripreso per essere poi trasmesso in televisione).
Come suddetto, la prima parte del concerto è dedicata a due composizioni di Rachmaninoff. Pappano esalta la raffinatissima orchestrazione del poema sinfonico L’isola dei morti; l’orchestra di Santa Cecilia lo segue fedelmente, producendo un suono magnifico. L’italo-inglese riesce a infondere quell’esoterica ansia che pervade l’intera partitura, fin dall’incipit ristagnante, fatto di una pasta sonora in cui non si fa difficoltà ad immaginare lo sciabordare dell’acqua marina contro la barca dell’ignoto psicopompo. Pappano tiene prudentemente l’orchestra sul piano, tessendo l’arcata del crescendo che giunge a un parossismo melodico espressivo, ma misticamente lontano; la composizione poi ritorna alla statica melodia marina disegnata dagli archi bassi e dai legni. Chiudendo gli occhi non ho potuto evitare di figurarmi la versione di Basilea del dipinto ispiratore di questo poema, il capolavoro di Böcklin; la prima − che mi capitò di vedere anni fa −, forse la più vicina al dettato armonico rachmaninoffiano, per la cinerea, plumbea atmosfera.
Dopo felici applausi, entra in scena Alexander Romanovsky: figura slanciatissima, dallo sguardo pacato, introverso. Attacca il Concerto n. 1 in fa diesis minore, che incomincia ‘ciajkovskianamente’ in medias res, per poi assestarsi sull’eloquio melodico. Romanovsky ha una tecnica specchiata, una buona musicalità; sa dosare la pedaliera, non impasta mai il suono. Buono anche il suo virtuosismo muscolare, percussionistico. Pappano dirige ottimamente l’ensemble, ma all’esecuzione, in cui tutto sembra perfettamente al suo posto, manca un pizzico di entusiasmo da parte del solista. Non che Romanovsky sia stato irrigidito: semplicemente ha scelto la via di un pianismo più anestetico − mi servo dell’aggettivo per tentare di rendere il senso di una sua lettura che mi è parsa dal carattere analgesico, anodino. Troppo ordinariamente pacata rispetto all’espressivamente energica esecuzione dello stesso Rachmaninoff − si trova con una certa facilità proprio l’ascolto del I movimento. Il pianismo di Romanovsky ha il sapore, quindi, di un Rachmaninoff più pacato, ligio alla lezione di Ashkenazy, più che di quella sanguigna e, a mio avviso, maggiormente filologica (se si possa fare filologia di emozioni interpretative!) di un Richter. Cos’è mancato, dunque, a Romanovsky? Nulla di realmente palpabile: piuttosto, un po’ di appassionato ardore. Tecnicamente ci ha sicuramente regalato una deliziosa délicatesse, sfoggiata in più punti della partitura (nel disegno degli arpeggi nel I movimento; nella ristagnante, pensosamente elegiaca melodiosità del II). La medesima délicatesse che sfoggia stupendamente nel Notturno in do diesis minore op. postuma di Chopin, bis in omaggio a un pubblico che lo applaude con calore.
Stupisce l’adamantina fibra di Pappano. Dopo un così intenso primo tempo, atto a scandagliare la poetica di Rachmaninoff, ci prende e ci conduce in un’Italia rarefatta, osservata dallo sguardo finlandese di Sibelius. La Sinfonia n. 2 in re maggiore, la più celebre tra quelle da lui composte, è stata proprio scritta nella ridente penisola. Pappano fa rivivere ogni sapore del I movimento, l’Allegretto, un pot-pourri dalle sonorità molto italiane, non scevro di una magniloquenza tutta sua: al direttore non sfugge la benché minima ruota di questo poderoso ingranaggio. Delizioso il passaggio ironico, satirico, dei pizzicati degli archi bassi all’inizio del II movimento (Tempo andante ma rubato); gli stessi archi che nel III incorniciano, freschi e ruzzanti, una fantasia pastorale del corno e dei legni, cui Pappano conferisce una nostalgica plasticità. Eccellente il passaggio in raccordo fra il III e il IV, una sorta di crescendo dal vago ricordo rossiniano; il IV che Pappano ci restituisce in tutta la sua brillantezza, un’estatica apoteosi dell’amore di Sibelius per tutto ciò che è italiano. La fine dell’eccellente performance è accompagnata da sonori applausi.