di Stefano Ceccarelli
All’Accademia di Santa Cecilia esordisce una nuova composizione di Salvatore Sciarrino, La nuova Euridice secondo Rilke. Al suo fianco, il maestro Antonio Pappano ha deciso di porre − in una sorta di affascinante dialettica fra passato e presente − una composizione di Johann Sebastian Bach, il Magnificat. Il risultato è ricco di echi fascinosi e la direzione di Pappano conferisce smalto alle due composizioni.
ROMA, 30 marzo 2015 – Alla presenza dell’autore, il direttore stabile dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Antonio Pappano, dirige la première assoluta de La nuova Euridice secondo Rilke, una sorta di cantata per voce e orchestra composta dal siciliano Salvatore Sciarrino. La parte vocale è stata sostenuta dalla straordinaria e bellissima Barbara Hannigan. Pappano, come di consueto (specialmente quando si tratta di composizioni − come in questo caso − del tutto particolari), dice qualche parola al microfono a inizio concerto, introducendo brevemente la figura di Sciarrino mediante la lettura di alcuni passi del programma di sala di G. Mattietti. Il testo della cantata è una personale traduzione che Sciarrino ha approntato delle poesie Orpheus, Eurydike, Hermes e An die Musik di Rilke, con riadattamenti. L’organico è per piccola orchestra e, appunto, soprano. A un primo ascolto, la composizione ha dalla sua il pregio di una scrittura timbricamente studiata e ricercata (particolarissimi gli effetti sonori dovuti all’utilizzo degli strumenti, o di loro parti, in maniera non ortodossa): il suo maggior pregio mi sembra proprio l’atmosfera sonora che riesce a evocare, ristagnante, melmosa, indolente, funerea, evocativa della catabasi infera di Orfeo. La scrittura vocale presenta qualche momento felice, qualche passaggio armonicamente desueto, singolare, ma a tratti scorre appesantita e farraginosa, soprattutto per l’uso insistito di alcune tecniche di emissione come repentini ‘ingolamenti’ e ravvicinati gruppetti fulminei, una sintesi di uno stile personale molto madrigalistico. Belli sono invece i passaggi in cui il canto trasborda nel vivo parlato. La Hannigan non si risparmia affatto: la sua straordinaria presenza vocale, la sua tecnica adamantina − stupende le frequenti messe di voce − e il colore che riesce a conferire a ogni frase, donano vigore emotivo a una scrittura vocale per molti versi simile a un lungo melologo dal sapore arcaico, monteverdiano. La direzione di Pappano, al solito attentissima ai volumi, ai timbri ai cambi di ritmo, aiuta a apprezzare molto la scrittura. Rimane, a mio avviso, il rimpianto di una resa poco poetica del testo − fermo restando, del resto, che Sciarrino è un compositore di musica, non un poeta. Gli applausi arrivano, ma qualche mormorio tra il pubblico si comincia a sentire verso la fine della cantata: una musica così particolare non può piacere proprio a tutti. Alla fine, il trio Sciarrino, Pappano e Hannigan accolgono gli applausi con un inchino.
Dal presente al passato. Ecco per la seconda parte del concerto fare capolino l’immortale Bach, con una composizione sacra nota e amata dal pubblico: il Magnificat (1733). Breve, di una ieraticità austera, scarnamente protestante, la composizione prevede la presenza, oltre alla compagine corale, di cinque solisti: due soprani, un contralto, un tenore e un basso. In questa edizione, la parte del soprano II e del contralto è cantata dalla stessa interprete, Josè Maria Lo Monaco. La talentuosa catanese palesa doti incredibili di versatilità e estensione vocale, unite a un pastoso e aggraziato, anzi forse più verace, timbro. Incanta nell’Et exultavit, regalandoci dei suoni fissi in messa di voce ragguardevoli, oltre che scioltezza di emissione nelle fioriture che decorano l’immortale melodia; fin dal duetto col tenore (Et misericordia) ci stupisce nel cambio di estensione e emissione, più vibrata, corpulenta, terminando da autentico mezzosoprano − più che da contralto − nell’Exurientes, melodiosamente pastorale, dove Pappano accompagna con maestria. Amanda Forsythe ha la parte del soprano I e la si ascolta brevemente nel Quia respexit; ne godiamo l’ottima tecnica delle messe di voce, l’argentina intonazione: peccato a tratti sia un po’ duretta. Il tenore, Paolo Fanale (il Messaggero della recentissima Aida di Pappano), nel duetto e nel Deposuit mostra come il suo timbro chiaro, sonoro e il controllo delle fioriture e dei passaggi in legato, gli consentano un’ottima esecuzione: avrebbe potuto aprire più il volume, ma in un’atmosfera soffusa, ecclesiastica, anche un’esecuzione più in sordina è affatto consona. Christian Senn canta la breve parte del basso (Quia fecit): la sua voce, ancorché pastosa e chiara, con passaggi abbastanza buoni in legato, non suona in maniera sacra, avendo poco o nulla di ieratico. Ma il vero protagonista della serata è lo strepitoso coro dell’Accademia (Ciro Visco): la precisione, la pulizia del suono, la giustezza degli attacchi, sono caratteristiche essenziali in una buona esecuzione bachiana, e loro le hanno mostrate tutte copiosamente. Dall’attacco del Magnificat, al soterico, liberatorio Fecit potentiam, per concludere con il Gloria Patri, che termina nell’assoluta potenza di quell’«Amen», è un crescendo di emozioni indescrivibili. Delizioso anche il coro di voci bianche nel soffuso Suscepit Israel. Che Pappano fosse un grande direttore bachiano, lo ha più volte dimostrato; e non si smentisce nelle atmosfere tra il barocco e il neoclassico, mai appesantite, d’accompagnamento e coronamento al canto, con cui sorregge il tutto. L’orchestra è magnifica e molto nel pezzo − considerazione non scontata, soprattutto dopo l’esecuzione di un brano come quello di Sciarrino. Gli applausi coronano il tutto.