di Stefano Ceccarelli
Nella maggior sala dell’Auditorium, Yuri Temirkanov e Martha Argerich danno vita a una magia indescrivibile. Un concerto unico, anche per la scelta delle musiche in programma: la Sinfonia n. 94 di Franz Joseph Haydn, il Concerto n.1 in do minore per pianoforte, tromba e orchestra di Dmitrij Šostakovič e la Sinfonia n. 8 di Antonín Dvořák, con accostamento di epoche e gusti assai diversi. L’esecuzione è più che magistrale, approssimandosi alla perfezione: i due artisti, tra i più affermati al mondo nei loro rispettivi ruoli, sono in uno stato di grazia tale da regalarci una serata magica.
ROMA, 14 aprile 2015 – La sala Santa Cecilia è gremita, come raramente la si vede. Fa la sua tranquilla, sicura entrata il blasonato Yuri Temirkanov, habitué dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, per introdurci nell’atmosfera londinese fin de siècle (il '700, ovviamente) in cui Haydn pensò la Sinfonia n. 94 in sol maggiore, una del “ciclo − appunto − londinese” del re della sinfonia. Temirkanov sceglie una nuance sonora squisita: un’orchestra, all’uopo ridotta, suona splendidamente sotto le sue mani. Il I movimento scorre raffinato e smagliante, facendosi apprezzare soprattutto per la magia che riesce a creare il flautista con quel pastorale trillo cui fanno eco i compagni legni. Nel secondo, l’orchestra crea quell’atmosfera innocentemente limpida, pulitissima, spezzata dal suono del timpano (la “sorpresa”, sottotitolo con cui è universalmente nota la sinfonia); con che maestria Temirkanov fa, con grazia, crescere l’orchestra e il timpano grazie a pennellate sonora di eguale intensità solo giustapposte, creando un impasto sonoro similissimo a un crescendo “rossiniano”. Deliziosamente ballabile il Minuetto, di zuccherina grazia; ben diretta la tessitura dell’ultimo movimento, col quale Temirkanov chiude in bellezza. Dietro di me sento uno spettatore − invero dotato d’ottimo gusto − dire: «Che pulizia!». Non potrei trovare parole migliori.
Dopo caldissimi applausi, ecco l’entrata della regina: Martha Argerich, rigorosamente in nero, avanza sorniona, godendosi già i primi applausi. Ciò che riescono a creare Temirkanov e Argerich assieme è indescrivibile a parole. Unico, irripetibile, magico momento. E l’accostamento di Haydn e Šostakovič, sulla carta non così scontato, né agevole, è risultato quanto di più naturale si potesse cercare, per il fil rouge che pervade le due partiture: una smaliziata ironia. Le mani della Argerich sono come farfalle che svolazzano serene, come api ruzzanti da un fiore all’altro; il suo tocco è etereo, fatato, ma anche ironico, come si confà a questo pezzo. L’assolo di tromba previsto dalla partitura è interpretato dal talentuoso Giuliano Sommerhalder. Il concerto è fresco, frizzante, dalle sonorità seducenti e dall’uso variopinto, alessandrino dei generi musicali cui strizza l’occhio, come pure delle citazioni d’autore variamente intessute nella complessa trama. La partitura sembra irridere ogni magniloquenza, ma un po’ magniloquente lo è anche lei. Quest’intima contraddizione è risolta dalla Argerich col dosare sapientemente l’ethos interpretativo di ogni movimento, anzi di ogni momento. Se nel I movimento ci si inizia a rendere conto del peso virtuosistico della parte, il II mistifica il tutto, calandoci non tanto in un notturno, ma in un paesaggio lunare, evocato dall’assolo in sordina della tromba, cui risponde un elaborato e ricco melologo del pianoforte, dolce, elegante, a tratti quasi d’un affettato romanticismo. L’atmosfera si risolleva nel III (Moderato), per poi lanciarsi nell’istrionico, irriverente IV, che arriva al parossismo su un assolo di tromba con dolci ribattuti degli archi a fior di archetto, che cresce, cresce in intensità virtuosistica e ironia (spassoso il siparietto che la Argerich e Temirkanov fanno − e rifanno, giacché il bis della serata è stato proprio il III movimento di questo concerto − quando il pianoforte irrompe in questo comico idillio con un sonoro accordo dissonante: la Argerich fa per scusarsi aprendo le braccia, Temirkanov fa buon viso di essere infastidito del disturbo). Intensità che porta diritta al celeberrimo finale, ritmicamente trascinante, inarrestabile, che Argerich esegue percuotendo i tasti con tale levità, da sembrare che quasi non li sfiori. Proprio come faceva Šostakovič (abbiamo la fortuna di poter fare questo paragone grazie a un brevissimo video che lo ritrae esecutore del finale III nel 1940). La Argerich, al solito quasi restia a ricevere gli applausi, saluta tutti subissata dai «brava!» provenienti da ogni dove.
Dopo l’intervallo, Temirkanov torna a dirigere una sinfonia: la Sinfonia n. 8 in sol maggiore op. 88 di Dvořak, che aveva già diretto all’Accademia nel 1988. Forse riusciamo, ora, a capire anche la riuscitissima alchimia di questo concerto: il “cornucopico” melodismo che caratterizza tutt’e tre le composizioni, soprattutto − c’è da dire − l’ultima. L’orchestra, poi, suona il tutto con tale perizia e bellezza di resa, da stupire il pubblico: sono sicuro che si troverà d’accordo con me anche quello radiofonico di RaiRadio 3 e quello televisivo di Rai 5. Così Temirkanov ci introduce nell’Ottava dvořakiana, con nostalgica dolcezza, incarnata nella bucolica, tenerissima melodia dell’assolo di flauto. Il suo Diktat è: bellezza sonora e uniformità, logica ritmica. E il tutto gli riesce incredibilmente bene. Dicevo: il I movimento scorre intenso, poetico. Del II il russo esalta le amene sonorità, degne del più ispirato Beethoven, cullando il tema principale che si rimbalzano gli archi e i legni, il tutto con un’introspezione tutta karajanniana. Il valzer dello Scherzo (III), Temirkanov lo rende con una malinconica grazia čajkovskiana; un valzer che invita realmente alla danza, ma a quella d’un ultimo ballo fra due amanti che dovranno separarsi. Il IV si fa sentire con una pomposa fanfara in apertura: qui Temirkanov rivitalizza la partitura con energia e passionale veemenza. Ecco che sentiamo il volume in forte di cui l’orchestra è capace; ma il tema principale è di una romantica rêverie. Alla conclusione della sinfonia, il pubblico rende omaggio alla catarsi che ha ricevuto con un sentito applauso.