di Roberta Pedrotti
La statunitense Orpheus Chamber Orchestra ospite del Bologna Festival propone il suo utopistico ideale di rinuncia a ogni gerarchia e alla figura stessa del direttore. Solista al piano il turco Fazil Say, del quale viene proposta anche la Chamber Symphony in prima europea.
BOLOGNA, 15 aprile 2015 - L'aneddotica intorno alle orchestre che, anche in presenza formale di un direttore, si trovano costrette a gestirsi in autonomia o a individuare una figura alternativa di riferimento – sia essa una prima parte o il tastierista al continuo – è florida, spesso spietata, quasi sempre gustosa.
Capita anche, allora, che una formazione decida di far programmaticamente a meno del direttore, di abolire non solo il podio, ma anche la distinzione fra primi e secondi violini, le cariche istituzionali di spalla e prima parte. Perché no? D'altra parte la figura del concertatore, la sua posizione e la stessa bacchetta sono creazioni relativamente recenti, per quanto siano sempre esistiti riferimenti più o meno ufficiali che guidassero l'esecuzione.
Rinunciando al direttore, e con lui a qualunque gerarchia, la statunitense Orpheus Chamber Orchestra si guadagna indubitabilmente un'immediata simpatica per il suo utopistico progetto di anarchia realizzata in musica. Là dove, naturalmente, si intenda l'Anarchismo nel suo originale significato: non il disordine che l'uso comune le associa, bensì un ordine ancor più rigoroso perché affidato invece che a regole esterne alla responsabilità e al senso etico del singolo verso la comunità.
Un gruppo di pares, dunque, fra i quali il primus muta di brano in brano nel corso di uno stesso concerto, affrontato necessariamente con gioioso spirito cameristico.
Questo nell'ideale. Nella pratica il brano che più ci ha convinti è stato il Siegfried Idyll di Wagner, che per la sua originale concezione privata e domestica, pare particolarmente adatto a un complesso come questo, che ne coglie piacevolmente lo spirito, la suggestione di un affettuoso racconto salottiero che evochi atmosfere dalle leggende di valchirie e nibelunghi.
Ironia della sorte: proprio il teorizzatore di un direttore demiurgo onnipotente quale fu Wagner si trova in perfetta sintonia, in questo caso, con chi vuol mettere in pratica l'accessorietà dello stesso direttore. Non a torto, se, come dicevamo, conosciamo tanti esempi – spesso giustificati – di autogestione non dichiarata ma evidente. Se, però, è vero che esistono direttori deficienti (nel senso etimologico di “mancanti” in tecnica o personalità, senza intento offensivo) che devono esser compensati da iniziativa autonoma e istinto di sopravvivenza di orchestre cori e cantanti, nondimeno questa considerazione conferma come un buon maestro possa far la differenza, imporre un equilibrio, condurre a una meta più alta. Quanto una mediocre o cattiva bacchetta è dannosa o ininfluente, è preziosa una buona o eccellente.
Ce ne rendiamo conto quando ascoltiamo la Sinfonia n. 80 di Haydn o i due bis, Salut d'amour di Elgar e l'ouverture dalla rossiniana Cambiale di matrimonio. Soprattutto quest'ultima si gusta con piacere, perché si avverte il piacere gioioso con cui questi utopisti della musica godono nel suonarla e condividerla con il pubblico. E siamo grati loro per la preparazione, la serietà, la qualità tecnica di base che permette, per esempio, di ascoltare un corno decisamente superiore alla media cui siamo abituati. Però si avvertono anche dei crescendo che potrebbero essere più graduali (cosa che, però, avviene spessissimo anche con tradizionali direttori sul podio), piccoli accorgimenti ritmici per facilitare gli attacchi in sincrono, un amalgama delle sezioni – tutte buone – che potrebbe essere meglio calibrato nei piani sonori. Difetti non certo esiziali, che riscontriamo abitualmente, anche in forma più marcata, in formazioni più convenzionali. Resta la curiosità di sapere cosa saprebbero fare questi musicisti, senza dubbio ottimi, con una buona bacchetta, ma proprio il rinunciare a questa possibilità per una scelta ideale, perseguita con una convinzione pari solo alla serenità che trasmettono, ci fa parteggiare per loro.
Due brani meritano un discorso a parte, per il coinvolgimento, come solista e come compositore, del pianista turco Fazil Say.
Si tratta, nel primo caso, del Concerto n. 23 per pianoforte e orchestra di Mozart, nel quale Say funge, per forza di cose, da punto di riferimento, benché sia evidente la sua volontà di entrare nello spirito dell'Orpheus Chamber Orchestra. Il solista non s'impone sull'insieme, ma sceglie, viceversa, una sonorità il più possibile amalgamata con quella degli altri strumentisti. Il concerto diviene così una curiosa, inusuale espressione di quell'ideale paritario che anima il complesso statunitense. Say non abdica, comunque, alla sua personalità, che esprime nel suo fraseggio percussivo e granuloso, anticlassico come l'approccio creativo, non rigoroso al testo, influenzato anche dal rapporto del pianista con il mondo del jazz.
Say compare poi, dopo l'intervallo, come compositore: l'Orpheus Chamber Orchestra tiene a battesimo europeo la sua recentissima Chamber Symphony op. 62. Scontato che l'esecuzione sia tecnicamente impeccabile per un brano cucito su misura per questo complesso e preparato con l'autore. La partitura non è rivoluzionaria o indimenticabile, ma si fa apprezzare per la franchezza dell'ispirazione, la sentita esplorazione di riminiscenze legate all'ambiente turco come solo un musicista cresciuto in quella terra può esprimere in tutte le sue diverse anime. Nulla a che vedere, insomma, con le mode turchesche di due secoli fa, sulla fascinazione europea per le bande di giannizzeri o le suggestioni etnomusicologiche in voga dal secondo '800. Say dà forma all'eco sonora delle sue radici nel crocevia culturale dell'Anatolia, fra Balcani, Medio Oriente, Europa e cultura gitana. Questa materia si esprime e dialoga con le forme occidentali, con la musica americana, e lo fa sia in una sintesi intimamente sincretica e inscindibile, sia in accordi violenti e strappi che sembrano evocare un conflitto, una difficoltà che riflette un'attualità problematica, nella quale troppo spesso la propaganda fa più rumore del dialogo, la paura della diversità è più appariscente del fascino del molteplice.
Un pezzo, insomma, ben pensato nei contenuti e intimamente sentito, proprio per questo d'ascolto piacevole e stimolante, anche al di là dei valori più strettamente musicali.
Pubblico numeroso e successo vivo, ben ripagato, con generosità di bis (ancora Mozart con orchestra per Say) da parte di tutti gli interpreti.