di Stefano Ceccarelli
Il talentuoso direttore Gianandrea Noseda tiene un concerto all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, offrendo un programma di gusto tutto francese, adorno di una rarità: le due suite che Maurice Ravel cavò dal balletto Daphnis e Chloé e la Seconda Sinfonia di Alfredo Casella, che vanta la sua prima esecuzione all’Accademia. Rarità assoluta, capolavoro cui il pregiudizio ha involato prematuramente un dovuto riconoscimento, la Seconda Sinfonia di Casella può essere ora apprezzata in tutto il suo fascino.
ROMA, 21 aprile 2015 – L’Accademia di Santa Cecilia, da sempre attentamente dedita allo studio e al recupero della sua tradizione interpretativa, basa il programma del concerto diretto da Gianandrea Noseda, astro della bacchetta italiana, su un concerto avutosi allo storico Augusteo che tenne Alfredo Casella nel 1915, fra i fermenti per la Prima Guerra Mondiale. In quell’occasione, Casella portò esclusivamente musiche contemporanee, tra cui la Seconda Suite da Daphnis et Chloé di Ravel (la sua première italiana; anzi, a onor del vero, fu anche la prima volta che si udì Ravel in Italia). Nel concerto odierno, la cui punta di diamante − non tanto per la qualità musicale, quanto per la sua particolarità − è certamente la Seconda Sinfonia di Casella, l’Accademia e Noseda hanno voluto ricreare atmosfere magnifiche, basate su opere dal gusto francese.
«Sinfonia coreografica» (come la definì Ravel) su soggetto di Fokine, tratto dal celebre romanzo greco-ellenistico di Longo Sofista, il balletto Daphnis et Chloé vide la luce per interessamento di Djagilev. Siamo nel pieno fermento di sperimentazione musicale ribollito in Francia nel secondo decennio del XX secolo (Stravinskij ne fu l’altro celebre protagonista). La musica di Ravel è di una squisita sensualità impressionista: «era mia intenzione comporre un vasto affresco, più in linea con la Grecia dei miei sogni che con l’antichità, una Grecia come quella rappresentata dagli artisti francesi alla fine del XVIII secolo» (sempre parole del compositore). Noseda riesce a esaltare ogni più screziata sonorità; muove le mani con tale armonia e eleganza da renderci perfettamente perspicua la sua idea agogica: la limpidezza della lettura è sicuramente una delle sue migliori qualità. L’esecuzione è divina. C’è poco da aggiungere. E il merito è chiaramente anche del materiale orchestrale, il migliore d’Italia: basti l’esempio della fluente melodiosità con cui il primo flauto (Andrea Oliva) affronta la sua parte solistica − in particolare gli splendidi effluvi nella parte finale della Seconda Suite. Le incredibili difficoltà della partitura vengono affrontate da Noseda con una nonchalance tale da far emergere tutto il suo intimo esprit de finesse: le delicate volumetrie sonore, le esotiche infiorescenze, gli iridescenti colori che dipingono un affresco in filigrana, tutto è vivificato dal tocco di Noseda e degli orchestrali dell’Accademia. Da non dimenticare l’eccellente performance del coro a mo’ di puro strumento vocale (Ciro Visco), che rende passaggi di intenso pathos.
Il secondo tempo è introdotto da alcune parole di Noseda, svelatosi persino accattivante oratore. Parla della scelta della sinfonia di Casella, affine allo spirito sperimentale della musica di Ravel (e coeva all’esecuzione del balletto di Daphnis et Chloé). Noseda asserisce che la sinfonia è un capolavoro del XX secolo e che un pregiudizio ingiusto − ironicamente paragona Casella al Carneade manzoniano! − ne ha impedito la riscoperta fino a non poco tempo fa (dopo 70 anni di oblio). Noseda schizza poi brevemente le caratteristiche dei quattro movimenti: il carattere straussiano del I; l’insostenibile danza che impernia il II; la grande dicotomia delle due melodie del III, l’una cromaticamente espressionista, l’altra diatonica e “gregoriana”; e l’ultimo, con la sua marcia funebre e il finale solare che esorcizza lo spauracchio della Prima Guerra Mondiale. L’esperta conoscenza della Seconda Sinfonia in do minore op. 12 porta Noseda − amante e ottimo conoscitore del pezzo − a concentrarsi sulla difficoltà più grande: l’imbrigliamento della maglia ritmica, scandendo con perizia i passaggi e le variazioni agogiche. La tessitura ritmica è d’incredibile arditezza: essere equilibrati fra i momenti di carico e scarico della tensione non è certo facile. Per fortuna, Noseda vi riesce con quella brillantezza di cui impernia tutto il concerto. Ma gioca anche di fino: mi vengono in mente la melodia malinconica della fine del II che, dopo l’esposizione del corno, passa agli archi, con delle figurazioni che ricordano alla lontana il čaikovskiano Capriccio italiano. O la tetra introduzione degli archi preludente alla marcia funebre nel IV. L’Adagio mistico, esorcistico finale, è reso con sacrale intimità. I calorosi applausi ricompensano Noseda, l’orchestra e il coro dell’eccellente lavoro svolto.