di Stefano Ceccarelli
Torna a esibirsi nella sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica il giovane polacco Rafal Blechacz, talento del piano, con un recital su musiche di Bach (Concerto italiano), Beethoven (Patetica) e Chopin (un Notturno, tre Valzer e altrettante Mazurche), suo indiscusso cavallo di battaglia. Blechacz, per quanto il suo pianismo sia perfettibile, possiede un indiscusso fascino che fa breccia nei cuori del pubblico, che accorre sempre numeroso a omaggiarlo e a godere delle sue esecuzioni.
ROMA, 22 aprile 2015 – Torna a esibirsi all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia il giovane polacco (classe ’85) Rafal Blechacz, stimato pianista del panorama internazionale. Blechacz − che appare già da qualche anno sul palco dell’Accademia − sta compiendo l’ascesa a un’importante carriera, di livello assoluto. Il contratto in esclusiva con Deutsche Grammophon ne ha sancito e corroborato la fama internazionale.
Di una schiva e pudica riservatezza, Blechacz appare compostissimo, aristocratico, senza mai farlo con affettazione, ma anzi con naturale spontaneità. Il suo pianismo è tra i più suadenti e melliflui che si possano oggi godere ad alto livello. Un suono levigato, terso, limpido è quello che scaturisce dalla tastiera quando vi posa le mani; un afflato delicato, un dolce zeffiro guida un’agogica maniacalmente attenta ai respiri del suono. Un pianismo perfettamente confacente a una certa letteratura, come quella chopiniana: decisamente meno a quella bachiano-beethoveniana, letture da lui certamente perfettibili. E infatti sceglie, di Bach, il Concerto secondo il gusto italiano BWV 971 che più si confà al suo precipuo senso del piano. L’interpretazione risente − a mio avviso − di un gusto pacato e indugiante, più astrattamente barocco, che barocco in sé: se potremmo definire barocca in sé l’interpretazione di uno Schiff, quella più astrattamente barocca si potrebbe esemplificare nelle versioni di Benedetti Michelangeli o De Larrocha. Blechacz risulta delicato, intimista, ma poco argentino, frizzante: il secondo movimento, quella sorta di aria d’opera del ‘700 napoletano, è sicuramente la parte in cui eccelle maggiormente. Con Beethoven, con la Sonata n. 8 in do minore op. 13 universalmente nota come la Patetica, l’atmosfera pianistica si fa più accesa, ma comunque a tratti troppo delicata per un pezzo tormentato tal è questa sonata: il Grave iniziale è troppo ovattato e, del resto, il percussionismo puro non costituisce certo il suo forte. Ma l’ottima tecnica, un uso espressionistico della pedaliera, e il gusto per il pianismo legato e volato, donano all’Allegro e al tema in mi bemolle minore uno smalto del tutto differente, forse più adeguato all’ethos del pezzo. Il primo movimento quindi termina con energia. Si sta appena risvegliando dal dolce torpore bachiano, che vi si deve immergere di nuovo. Nell’Adagio (II) fa risuonare quell’italica, marcatamente partenopea melodiosità: Blechacz sguazza nelle sue atmosfere cristalline, felice e sereno, nella «melodia purissima, serena, incantata», «l’altra faccia del Beethoven drammatico» (come ha ben detto M. Mariani nel programma di sala). Conclude con un III movimento tutto giocato sul tocco e sulla gentilezza del respiro.
Per quanto Blechacz filtri ogni epoca pianistica col suo peculiare stile, incorrendo nel rischio di suonare un po’ tutto allo stesso modo, sovente incontra delle consonanze particolari: come con Chopin. Consonanze che si potrebbero addirittura definire biologiche − visto che ambedue condividono la stessa nazione di nascita, quella Polonia dal gusto musicale sanguigno, così slavo, eppure imbrigliato in eleganze tutte mitteleuropee. La scelta di un secondo tempo tutto chopiniano è una mossa più che saggia. Si parte con la cullante melanconia del Notturno op. 62 n. 2: non si possono non condividere le parole di von Gretsch, allievo di Chopin, quando ammise che il suo maestro gli disse di aver ricalcato lo stile dei suoi notturni «sullo stile di canto di Rubini, della Malibran, della Grisi», insomma autenticamente belliniano. Ecco, poi, i tre Valzer op. 64, gli ultimi scritti da Chopin: Blechacz li conosce alla perfezione, sono un suo consueto cavallo di battaglia. L’esecuzione restituisce tutta quella sobria, gemmata brillantezza, non certo esente da una mal celata cupezza: squisito il n. 1, il cosiddetto Valse du petit chien; più intimistico il n. 2, larmoyant quanto basta; cromaticamente ironico il n. 3. Dopo, le Tre Mazurche op. 56. La prima porta con quell’allure così meditativo; la seconda più rusticamente, con quei robusti che la scandiscono; la terza, con maggior malinconia. Blechacz termina il programma con l’esecuzione della Polacca “Tragica” in fa diesis minore op. 44: ancora un’esecuzione che lungi dal privilegiare un percussionismo virtuosistico, cerca piuttosto la morbidezza melodica fra le asprezze fantasiose, avendo come modello una lettura che si avvicina a quella di Ashkenazy. Una consapevolezza profonda pervade sempre tutte le sue letture chopiniane: i colori sentimentali che ne scaturiscono non sono mai artificiosi, di maniera. Gli applausi arrivano contenti da una sala abbastanza gremita; un bis brahmsiano è l’ultimo regalo al pubblico romano.